
di Michele Iervolino
Le origini: Giannini e l’“Uomo Qualunque”
Nel dopoguerra, tra le macerie materiali e morali lasciate dal fascismo e dalla guerra civile, nasce il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. È il 1944: il giornalista napoletano intercetta un sentimento diffuso di insofferenza verso la politica, i partiti, le ideologie. Il suo giornale L’Uomo Qualunque diventa in pochi mesi un caso editoriale e politico: mezzo milione di copie vendute, comizi affollatissimi, candidati che si presentano come “cittadini comuni”.
Il messaggio è semplice e radicale: il cittadino medio vuole solo che la politica lo lasci in pace. Niente ideologie, niente apparati, niente mediazioni. Un populismo puro, di protesta, che non si propone di governare ma di denunciare.
Il lascito nel Movimento Sociale Italiano
Il movimento di Giannini dura poco, ma lascia un segno profondo. È Giorgio Almirante, fondatore e leader del Movimento Sociale Italiano, a coglierne la lezione più importante: in Italia esiste un serbatoio permanente di sfiducia verso le élite e i partiti, che può essere incanalato in una forza politica organizzata.
Il MSI raccoglie il testimone, trasformando il qualunquismo da sfogo estemporaneo a componente ideologica stabile della destra postfascista. Se Giannini voleva un “non partito”, Almirante costruisce un partito vero, che però fa dell’anti-sistema e dell’anti-politica una bandiera identitaria. La contrapposizione popolo/élite, già intuizione qualunquista, diventa un paradigma della destra italiana.
La lunga onda del populismo
Dagli anni Cinquanta fino al crollo della Prima Repubblica, la memoria dell’“Uomo Qualunque” continua a riemergere in filigrana. L’anti-partitocrazia, il rifiuto delle mediazioni, la retorica del cittadino comune: sono elementi che attraversano tanto il linguaggio missino quanto altre esperienze politiche marginali.
Ma è con Tangentopoli e il collasso dei partiti tradizionali che il qualunquismo si reincarna in nuove forme, aprendo la strada a un populismo più strutturato.
Dal populismo televisivo alla politica-spettacolo
Con il crollo della Prima Repubblica, Silvio Berlusconi inaugura nel 1994 un nuovo ciclo politico che segna profondamente la storia repubblicana. Forza Italia non è solo un partito nuovo, ma un modello di populismo mediatico: il leader-imprenditore si propone come incarnazione del “cittadino qualunque” che ce l’ha fatta grazie al merito e al lavoro, contrapposto alla “casta dei politici di professione”.
Il berlusconismo costruisce una nuova grammatica populista:
La personalizzazione estrema della politica: Berlusconi è il partito, il governo, il messaggio stesso.
L’uso dei media come arma politica: il controllo televisivo permette di trasformare la comunicazione in consenso diretto, bypassando i corpi intermedi.
L’anti-politica in versione moderata: non più il rifiuto totale della politica, ma la delegittimazione delle forme tradizionali di rappresentanza a favore di un rapporto diretto leader-popolo.
Il mito del “fare” contro il “parlare”: l’imprenditore che risolve problemi sostituisce il politico ideologico.
Per vent’anni, dal 1994 al 2011, il berlusconismo rappresenta la stabilizzazione del populismo in Italia: governi duraturi, radicamento sociale, una coalizione di centrodestra che diventa forza di sistema. Ma in questa parabola si ritrovano i tratti già emersi con Giannini e Almirante: sfiducia verso le élite istituzionali, personalizzazione del consenso, retorica dell’uomo comune contro la “casta”.
Se Giannini aveva predicato l’uscita dalla politica e Almirante ne aveva fatto un’identità di opposizione, Berlusconi realizza la prima vera istituzionalizzazione del populismo: un qualunquismo mediatico e imprenditoriale capace di governare e ridefinire le regole del gioco democratico.
Dal Vaffa-Day a “Prima gli italiani”
Dagli anni Duemila, il Movimento 5 Stelle e la Lega di Salvini rappresentano due declinazioni nuove e complementari del qualunquismo.
I 5 Stelle di Grillo e Casaleggio digitalizzano il mito del cittadino comune: “uno vale uno”, la rete come strumento di democrazia diretta, l’abolizione dei corpi intermedi. È il qualunquismo 2.0, che trasforma la rabbia in piattaforma digitale.
La Lega salviniana, invece, individua nuovi nemici: l’Europa, i migranti, le élite globaliste. È un qualunquismo identitario e securitario, costruito su slogan semplici e dicotomici: “noi contro loro”.
Il governo giallo-verde del 2018 rappresenta l’apice e insieme il limite di questo populismo: consenso enorme, capacità di cavalcare la protesta, ma incapacità di governare. Un esperimento durato poco più di un anno, affondato dalle sue stesse contraddizioni.
Giorgia Meloni e la stabilizzazione del populismo
Con Giorgia Meloni il quadro cambia. Fratelli d’Italia eredita tanto la lezione del MSI quanto l’onda lunga del qualunquismo digitale. La leader romana mantiene la retorica del “popolo contro le élite”, ma la inserisce in un progetto politico strutturato, radicato nelle istituzioni e capace di guidare stabilmente il governo.
Meloni ha compiuto una sintesi: ha trasformato il malessere in governo, la protesta in classe dirigente. Se Giannini rappresentava l’evasione dalla politica e Grillo la sua volatilità, Meloni ne rappresenta la normalizzazione e la conquista del potere.
Continuità e paradosso
Il filo rosso è chiaro: dal 1944 ad oggi, il qualunquismo è stato un ingrediente costante della politica italiana. Sempre presente nei momenti di crisi, sempre capace di reinventarsi, sempre giocato sulla dicotomia tra popolo ed élite.
Ma il paradosso è altrettanto evidente: un movimento nato per negare la politica si è trasformato, nella sua lunga genealogia, nella forma dominante della politica italiana di governo. Oggi il qualunquismo non è più rifiuto della politica: è la politica.
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