In ricordo di Enrico Fierro, una vita all’insegna del coraggio civile

 

 di Ranieri Popoli 

 Sinistra Italiana Avellino

 

Il ricordo e la considerazione per  una persona che si è conosciuta e frequentata da vicino è qualcosa di profondamente intimo che non può non condizionarti nel momento in cui diventa una memoria collettiva. Enrico Fierro oggi è conosciuto dal grande pubblico irpino e nazionale per essere stato un valente e coraggioso giornalista di importanti testate regionali,  nazionali ed estere oltre che un eccellente divulgatore, scrittore e  saggista dei  delicati intrecci  tra politica, economia e criminalità organizzata nonché  inviato speciale nelle zone di guerra  e autore di opere del teatro civile .  Ma non tutti, probabilmente, conoscono  o non ricordano la prima parte della sua temeraria vita, che ho avuto la fortuna di conoscere nella comune militanza nella Federazione Irpina del  Partito Comunista Italiano, laddove, a mio parere, sono maturati i preziosi anni della sua formazione umana e professionale. Enrico era stato dirigente dell’Alleanza Contadini, la gloriosa organizzazione di categoria che nel tempo si sarebbe chiamata Confcoltivatori e oggi C.I.A. . Eravamo a cavallo degli anni settanta e ottanta e il PCI, anche nella democristiana Irpina, era una forza politica di tutto rispetto che nel processo di rinnovamento condotto sotto la direzione di Michele D’Ambrosio mirava a dotarsi di una nuova generazione di quadri e dirigenti chiaramente vocati a battersi contro il dilagante sistema di potere dello scudo crociato. Ed Enrico Fierro, che si era distinto nel suo ruolo intransigente di fautore delle lotte contadine,  in particolare a difesa dei piccoli coltivatori,  degli  indifesi mezzadri e dei braccianti irpini, fu chiamato per svolgere proprio questo delicato ruolo di responsabile del nuovo Dipartimento della legalità e dei diritti,  ricoprendo l’incarico prima nella Direzione e poi nella Segreteria provinciale del Partito. Enrico a quell’incarico, però, dette subito una sua personale e originale impostazione, fuoriuscendo dai canoni tradizionali di un partito meridionale e campano troppo “istituzionale” e votato alle compatibilità più squisitamente politiche. Fu così che il giovane funzionario  iniziò a delineare il suo campo largo di azione intuendo che la questione della legalità in Irpinia, dopo la faglia non solo geologica ma storica del terremoto del 1980, ne stava mutando profondamente i lineamenti fuoriuscendo metaforicamente  dall’ingiustizia dell’Irpinia rurale  del “Diario di un giudice “ di Dante Troisi per entrare  in quello del Magistrato anti camorra Carlo Alemi. Per Enrico Fierro la legalità non era solo la trasgressione della regola o della legge da parte del singolo ma il suo evolversi in sistema, in intreccio tra diversi mondi che fino ad allora erano stati separati e che ora avevano a che fare addirittura con la nebulosa del terrorismo, come il caso Cirillo dimostrò, mettendo in scena in anteprima la dedizione di pezzi dello  Stato per le trattative. Memorabili furono le sue inchieste, a volte condotte anche personalmente, nei capitoli più delicati dell’epoca, che erano tradotte negli opuscoli che di sovente uscivano dalle untuose rotatorie dei ciclostili della federazione, non avendo né la forza economica per permettersi prodotti tipograficamente più competitivi tantomeno quella politica per trovare spazio sulle colonne di giornali o nei servizi delle nascenti tv locali,  votate a sostegno di ben altre forze e interessi. La fama di Enrico come serio e competente esperto di tali problematiche travalicò subito il confine irpino tanto che non c’era testata nazionale che non lo cercasse per avere informazioni e delucidazioni  sulle vicende che i loro corrispondenti venivano a seguire in loco. Ma Enrico per la sua indole e per il particolare tenace temperamento che lo caratterizzava era uno che non resisteva dietro una scrivania per cui preferiva inoltrarsi nei territori più caldi laddove ai problemi organizzativi del partito si aggiungevano quelli “ambientali” per cui non c’era riunione che avesse al centro talune tematiche e che non fosse richiesta la sua presenza in rappresentanza della Federazione. La guerra di camorra nel Vallo di Lauto nella prima metà degli anni ottanta imperversava in  modo spaventoso e il comune di Quindici era il crocevia simbolico di questa drammatico scenario. Da qualche tempo era iniziata nelle scuole napoletane un movimento di opposizione al dilagare della criminalità organizzata nel tessuto civile e istituzionale partenopeo  e della Campania e a macchia d’olio questo nuovo, e per certi aspetti inaspettato protagonismo giovanile, contaminò anche l’Irpinia. La Federazione Giovanile Comunista Irpina, allora guidata dalla coraggiosa Letizia Monaco, si schierò senza indugio a fianco del movimento anticamorra tanto da diventare un punto di riferimento organizzativo per gli studenti dell’intero mandamento. Fu così che venne promossa la prima marcia anticamorra in irpinia “Lauro-Quindici” alla quale presero parte i parroci della zona, con  in prima fila il Vescovo di Acerra Don Riboldi, i comuni, le scuole, i sindacati e tanti cittadini. Tutta la trama organizzativa, dai contatti agli  aspetti  operativi, fu sotto la sapiente regia di Enrico Fierro che nel frattempo aveva saputo tessere una vitale rete di rapporti con diversi ambiti della società . Ricordo perfettamente come una sera ci incrociammo nella storica sede di Via Del Balzo mentre ci apprestavamo ad andare ad affiggere i manifesti in vista della manifestazione mentre  lui era in ritardo per una riunione di partito. Capì dove andavamo e a fare cosa vedendoci con gli arnesi da lavoro e ci seguì con uno  sguardo preoccupato prima di entrare tra i fumi del piccolo conclave.  Dopo un’ora eravamo per le strade dei paesini del nolano, al buio e sotto una pioggia battente quando veniamo illuminati dai fari della “Due cavalli”  con la quale Enrico percorreva in lungo e in largo l’Irpinia. Scese dalla macchina e si sbottonò la giacca a vento da dove si intravide il luccichio di una pistola che sapevamo avere legalmente in dotazione con tanto di autorizzazione per difesa il   personale. Ci guardammo attoniti l’un l’altro, spiazzati da questo gesto di grande solidarietà,  mentre lui con la sua solita voce accattivante ci disse “ Guagliù che vuliti a me, non c’aggia fatto proprio a resta là. Qua  me sento meglio co’ vui  ”. Questo era l’Enrico Fierro che ho conosciuto e che in questo giorno di tristezza per la sua prematura scomparsa mi sono sentito in dovere di ricordare così, senza troppe parole di circostanza. Qualche anno dopo  , terminata la sua esperienza di partito, il bravo e intelligente Amato Mattia se lo portò con sé a “L’Unità”  dove subito mise a frutto la sua esperienza di giornalista di frontiera in esperienze redazionali di grande impegno civile come Dossier Sud, La Voce della Campania, Avvenimenti. Ma a me è piaciuto ricordarlo per quella vissuta come funzionario del PCI, si proprio così, funzionario, un sostantivo che negli anni della vandea antipolitica e populista in Italia è diventato inopinatamente quasi sinonimo di dispregio mentre era anche la scelta di vita che un giovane del dimenticato quartiere di Borgo Ferrovia sognava per cambiare il mondo non avendo in tasca nessuna certezza economica ma solo tanto coraggio da vendere. Con Enrico non scompare un pezzo della “meglio gioventù” irpina e di una Sinistra che stentiamo a ritrovare, ma che nel nome di uomini come lui non bisogna mai smettere di sognare.    

Ciao, Enrico.

        

 

 

 

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