
di Annamaria Palmieri e Giovanni Paonessa
Premessa
La scuola dell’obbligo inizia a sei anni, con la scuola primaria, ma, naturalmente, bambine e bambini iniziano il proprio percorso di apprendimento sin dalla nascita: nella relazione con la mamma, con il papà, con i fratellini (quando ci sono), con tutto il mondo che li circonda incuriosendoli.
Per alcune e alcuni di loro questo sistema di relazioni si arricchisce con la frequentazione, sin dalla più tenera età, di un nido dell’infanzia e, dopo i tre anni, di una scuola dell’infanzia. Quindi, quando la campanella suonerà per varcare l’aula della prima elementare, bambine e bambini già caratterizzati dall’esperienza familiare e dal contesto socio-culturale in cui hanno trascorsi i primi sei anni della propria vita, vi accederanno accompagnati da un ulteriore divario relativo alla frequentazione (o meno) del sistema educativo denominato “zeroseianni”, correndo il rischio concreto che, da quel momento in poi, il solco possa soltanto incrementarsi ulteriormente. Purtroppo, in molti contesti socio-familiari svantaggiati, la funzione educativa dello zerosei anni non è percepita, non è pubblicizzata, non è spinta con azioni e iniziative tese a renderne esplicita l’assoluta utilità per le bambine e i bambini.
Per ovviare a questi rischi, nel 2002 il Consiglio europeo ha indicato l’obiettivo della copertura del 33% dei posti nei nidi da raggiungere entro il 2010. Nel nostro Paese, malgrado le indicazioni ministeriali del 2012 e del 2017, soltanto nel 2022 è stato indicato esplicitamente l’obiettivo di coprire almeno trentatré posti-nido per ogni cento minori. Un obiettivo davvero minimo e del tutto insufficiente considerato che, nel frattempo, l’Europa ha stabilito un tetto del 45%.
I livelli essenziali
In molte aree del nostro Paese il raggiungimento dei “livelli essenziali delle prestazioni” continua a essere un miraggio anche per la gestione a dir poco originale degli indicatori utilizzati per l’individuazione dei fabbisogni standard e alla base della ripartizione delle risorse finanziarie a supporto del sistema integrato di educazione e istruzione 0-6 anni. Una logica, fatta propria da tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, che ha ulteriormente penalizzato le Regioni del Sud e intere aree svantaggiate del Paese. Il colpo di grazia è arrivato dal Governo Meloni che ha riformulato l’obiettivo del 33% rendendolo nazionale e prevedendo che ogni singola Regione possa anche soltanto attestarsi al 15% della copertura di posti nei servizi educativi per l’infanzia ogni cento abitanti di età fino a tre anni. Cosa comporterà, concretamente, quello che, all’apparenza, sembra un semplice ricalcolo di posti nido e percentuali, un esercizio giornalistico da lasciare nelle mani del “solito” Marco Esposito i cui puntuali e documentati rilievi vengono spesso accolti con fastidio?
Aumenterà ulteriormente la distanza tra alcune Regioni del Centro-Nord, nelle quali l’obiettivo è di gran lunga superato già adesso, e praticamente l’intero Mezzogiorno del Paese, poiché gli Enti Territoriali non saranno sollecitati (e finanziati) per adeguarsi agli standard minimi fissati in precedenza, con buona pace delle “Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei” e delle direttive comunitarie. Nel 2021 la Campania era all’11,7% a fronte di un 28% a livello nazionale con sei regioni tra il 36,1% e il 43,7% e altre sette sopra il 31%. La criticità è tutta concentrata nelle sette regioni del Sud con la Campania fanalino di coda (tra le città capoluogo di provincia soltanto Salerno ha una copertura del 21,3%).
I nidi sono davvero una priorità?
Ma perché è tanto importante che bambine e bambini vadano “all’asilo”? Nei nidi dell’infanzia bambine e bambini imparano a riconoscere i propri pari, a mangiare da soli, a giocare in autonomia, a cadere, sbucciarsi le ginocchia, abbracciare e… Insomma, crescono e gettano rapidamente le basi per esercitare la propria autonomia. Nel corso dei primi tre anni di vita impareranno progressivamente ad utilizzare i colori, a riconoscere gli animali, a tenersi per mano per spostarsi da una sala all’altra. Poi conosceranno i libri, che gli verranno letti sedendosi in circolo, oppure i fogli su cui scrivere e disegnare. Questa funzione altamente pedagogica è del tutto ignorata.
È largamente diffusa una percezione distorta dei nidi dell’infanzia (e, per certi aspetti, anche delle scuole dell’infanzia) fino a farli considerare una sorta di “parcheggio” per bambini, un servizio rivolto alla tipologia “genitori entrambi lavoratori” oppure a coloro che si trovavano “costretti” a lasciarli anche soltanto per poche ore al giorno, in modo che il genitore (naturalmente la madre!) disponga di qualche ora libera da destinare ad attività lavorative precarie, all’accudimento di anziani, etc.
D’altra parte, i documenti di contabilità generale dello Stato ancora imputano i costi relativi ai nidi per l’infanzia all’area dell’assistenza sociale e le normative vigenti impongono ai Comuni di farli rientrare nella tipologia “servizio a domanda individuale”: servizi che non sono obbligatori ma meramente facoltativi, con tanto di vincoli tariffari conseguenti. Quindi, continua a prevalere l’idea che si tratti di un servizio reso alle famiglie, “alle madri che lavorano”, del quale si può anche fare a meno in contesti di persistente inoccupazione femminile. Eppure, se anche la problematica volesse essere affrontata soltanto da questo punto di vista parziale, l’analisi dei fabbisogni dovrebbe tener conto di un mercato del lavoro segmentato e precario che penalizza ulteriormente proprio la manodopera femminile, espelle o scoraggia le lavoratrici-madri. Di conseguenza, la creazione di nuovi posti nido dovrebbe rispondere a un bisogno, anticipandolo e incentivandolo, semmai ricorrendo a modelli innovativi e a soluzioni organizzative flessibili.
Nulla di tutto questo è stato fatto e le tabelle, che evidenziano un divario perfino crescente, vengono affrontate con una sorta di rassegnazione e accompagnate dal retropensiero che, anche dal versante delle rivendicazioni e delle lotte per conquistare diritti, ci sono altre priorità. Ciò potrebbe spiegare o, quanto meno, fornire una chiave di lettura del perché, intorno alla palese carenza di un servizio che dovrebbe essere vissuto come essenziale, non si registri la mobilitazione dei potenziali destinatari per rivendicarne la fruibilità. Eppure, quasi sempre, i diritti sono tra loro interconnessi, come ci siamo ripetuti nel corso della bella iniziativa del 13 di febbraio su “la convergenza dei diritti”.
Il lavoro utile socialmente
Sarebbe stato necessario rivendicare con forza che quelle percentuali minime fossero rapidamente raggiunte e superate, andando ad affrontare, tra l’altro, un’altra faccia della medaglia, mai approfondita adeguatamente. I finanziamenti stanziati per “creare” nuovi posti-nido, da soli, non sono sufficienti per attivare effettivamente l’offerta. Infatti, una volta costruiti, i nidi vanno gestiti. Servono risorse finanziarie e deroghe amministrative per consentire ai comuni di assumere il personale necessario per farli funzionare a pieno regime. E’ del tutto improbabile, infatti, che possano “autofinanziarsi” con il solo regime tariffario, soprattutto se si ha l’obiettivo di proporre il servizio a nuclei familiari in condizioni economiche disagiate.
I Comuni, se non vengono lasciati da soli, possono essere decisivi per recuperare il divario esistente. Se per il segmento relativo alle scuole dell’infanzia, che impegnano i bambini da 3 a 6 anni, l’offerta passa anche per gli Istituti comprensivi statali, per l’ambito dello 0-3 anni i Comuni sono l’unico soggetto pubblico e hanno come concorrenti i nidi a gestione privata. Tra l’altro, la regolamentazione del segmento è demandata alle Regioni e, nel caso della Regione Campania, il vigente Regolamento n.4/2014 andrebbe aggiornato, e sarebbe preferibile che l’intera materia venga distaccata dal “Catalogo dei servizi residenziali, semi-residenziali, territoriali e domiciliari” nel quale prevalgono indicazioni e direttive tipiche dei servizi assistenziali. Un insormontabile limite “ideologico” poiché si continua a ritenere del tutto secondaria la funzione pedagogico-educativa dei nidi, sebbene in tal senso vadano le indicazioni ministeriali vigenti. Inoltre, nel contesto territoriale dato, spesso i nidi gestiti dai privati rivelano gravi carenze organizzative e gestionali che mettono in discussione la qualità del servizio e mortificano i diritti di chi ci lavora.
Mai come in questo caso le problematiche viaggiano in parallelo e ci sono diversi buoni motivi per correlare strettamente la rivendicazione dell’incremento di servizi per l’infanzia agli effetti diretti sull’occupazione di personale qualificato e specializzato che ne deriverebbe. Sia dal versante di assunzioni dirette da parte dei Comuni di personale qualificato, sia attraverso il ricorso all’affidamento di quota parte dei servizi al privato sociale, come è stabilito da alcune specifiche linee di finanziamento (Fondi SIEI). Su quest’ultimo punto vanno evitati gli equivoci che spesso, anche strumentalmente, sono alimentati da un’interpretazione distorta dei termini. I processi di “privatizzazione”, da scongiurare, prevedono un completo e radicale “passaggio di mano” dei servizi mentre, al contrario, il ricorso alla preziosa funzione del Terzo Settore comporta esclusivamente l’affidamento temporaneo di servizi o parte di essi a soggetti senza scopo di lucro, che sono selezionati con procedure ad evidenza pubblica e sottoposti al rispetto dei capitolati d’appalto, delle indicazioni e dei controlli del soggetto affidatario. Se governati correttamente, tali processi possono consentire la sperimentazione di modelli organizzativi, si pensi agli agri-nido; l’adozione di modelli gestionali con orari flessibili e concordati con la platea dei genitori; il ricorso a profili professionali con i quali integrare gli organici dei nidi, a partire dal personale ausiliario qualificato: assistenti alla comunicazione, operatori socio-culturali, etc.
Se si superano le diffidenze iniziali, maestre/educatrici comunali ed operatori specializzati del terzo settore possono collaborare per realizzare ed implementare laboratori esperienziali ed “atelier”, coinvolgendo un gran numero di bambine e bambini e sperimentando sul campo l’idea pedagogica di fondo di realizzare il diritto e il bisogno del minore ad esprimersi con più linguaggi, non solo quello verbale, facendo viaggiare insieme razionalità e immaginazione.
Un investimento che darà i suoi frutti più avanti, quando le bambine e i bambini inizieranno il proprio percorso scolastico (è probabile che si possano ottenere effetti benefici anche sui fenomeni di disaffezione e dispersione scolastica) e si avvieranno su una strada, spesso impervia, per diventare cittadini consapevoli.
Una vertenza per salvaguardare, estendere e qualificare i servizi educativi per l’infanzia
La prima controparte è, naturalmente, il Governo nazionale, rigettando il tentativo di banalizzare e ridimensionare i livelli minimi delle prestazioni che sono stati stabiliti dalle normative vigenti e dalle indicazioni dell’Unione europea e non bisognerà consentire alcuna rimodulazione al ribasso degli obiettivi prefissati. La Campania deve essere messa in condizione di raggiungere e superare l’obiettivo del 33% dei posti disponibili ogni cento bambini per puntare, rapidamente, ad adeguarsi al tetto europeo del 45%. Il governo della Regione Campania deve attivare misure, anche di natura straordinaria, per consentire la realizzazione e la gestione dei posti-nido e di tutti gli altri servizi ai quali andrà, finalmente, riconosciuta la preziosa funzione ricoperta nel sistema integrato di educazione e istruzione. Questo obiettivo dovrà essere chiaramente indicato nel programma elettorale del candidato alla presidenza della Regione che sosterremo. Un ruolo decisivo può essere assunto dai Comuni, ai quali è richiesto un salto di qualità nella programmazione, elaborando un vero e proprio “Piano regolatore dell’offerta educativa comunale”, tenendo conto di tutti i fattori in gioco e utilizzando coerentemente le limitate risorse finanziarie disponibili (prevalentemente Fondi ministeriali SIEI), per rilanciare e riqualificare l’intero segmento zerosei. Contestualmente agli aspetti quantitativi (creare più posti nido è comunque ”cosa buona e giusta”) è opportuno avviare una riflessione sulla componente qualitativa dell’offerta, facendo leva, già in fase di programmazione, sull’ascolto e sulla programmazione condivisa, con l’obiettivo di riuscire a individuare le effettive necessità dei territori per rispondervi adeguatamente. Se è vero che uno degli indicatori nazionali utilizzato per definire i fabbisogni è il numero degli iscritti, sarà opportuno andare a sollecitare e organizzare la domanda di posti nido anche in quei segmenti della popolazione che, semmai, non la inserirebbero tra le proprie priorità.
I processi di riqualificazione debbono interessare anche gli aspetti logistici, con l’individuazione delle aree e degli spazi da destinare ai servizi educativi per l’infanzia e sono essi stessi volani occupazionali. In molti contesti, soprattutto urbani, più che costruire nuove strutture sarà opportuno puntare a rigenerare e riqualificare gli edifici e i volumi già disponibili. Inoltre, anche in collaborazione con le Istituzioni universitarie – sulla falsariga dell’esperienza avvita alcuni anni orsino tra il Comune di Napoli e il DIARC dell’Università Federico II di Napoli – possono essere co-progettate le soluzioni tecnico-organizzative per migliorare l’offerta strutturale degli spazi destinati ai servizi educativi, puntando su interventi di manutenzione leggera finalizzati alla qualificazione, alla rivalutazione ed alla rifunzionalizzazione degli spazi interni ed esterni dei plessi valorizzando lo “spazio come agente educativo”.
In conclusione, il nostro impegno nel segmento dei servizi all’infanzia può essere considerato a tutti gli effetti un investimento di lungo termine, che darà i suoi frutti più avanti, quando le bambine e i bambini inizieranno il proprio percorso scolastico (è probabile che si possano ottenere effetti benefici anche sui fenomeni di disaffezione e dispersione scolastica) e si avvieranno su una strada, spesso impervia, per diventare cittadini consapevoli. Quelli di cui il turbocapitalismo liquido e le destre che lo rappresentano nelle istituzioni hanno più paura.
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