
di Tonino Scala
In un mondo dove i conflitti sembrano eterni e le armi l’unica lingua ammessa, ogni atto che interrompe questa spirale appare quasi assurdo. Ma è proprio dall’assurdo, dall’improbabile, che spesso nasce la possibilità del cambiamento.
Nei giorni scorsi, un gesto ha sorpreso chi osserva da anni — spesso con rassegnazione — il conflitto tra il governo turco e il popolo curdo. Militanti del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), in una zona montuosa dell’Iraq del nord, hanno dato alle fiamme un carico di armi, in modo volontario, simbolico, senza alcuna contropartita. Un rogo pubblico, documentato e dichiarato apertamente: *«Non vogliamo più essere costretti a scegliere tra morte e sopravvivenza»*, hanno detto. Non un abbandono della causa, ma una nuova forma di lotta, più alta e più difficile: quella per la pace.
Il PKK è considerato organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Per milioni di curdi, invece, rappresenta l’unica voce che, da decenni, prova a difendere diritti, cultura, autonomia. Il conflitto con Ankara dura da oltre quarant’anni: un bilancio pesantissimo di decine di migliaia di morti, villaggi rasi al suolo, una repressione sistematica contro attivisti, politici, semplici cittadini curdi. La guerra, spesso invisibile agli occhi del mondo, ha prodotto ferite profonde nei territori del sud-est della Turchia e oltre confine, in Iraq e Siria.
Eppure, nonostante il sangue versato, nonostante le operazioni militari turche che ancora colpiscono le montagne del Kurdistan iracheno, qualcuno ha deciso di rompere il ciclo. Di fare ciò che raramente si vede nei conflitti: un passo indietro. Un gesto unilaterale. Non dettato da un trattato, non suggerito da potenze esterne, non imposto da una sconfitta. Semplicemente scelto.
Bruciare le armi significa disarmare prima di tutto la propria coscienza. Rifiutare la logica del ricatto armato, anche quando tutto attorno urla vendetta. È una dichiarazione di umanità, prima ancora che di intenti politici. Significa dire: «Siamo pronti. Ora tocca a voi».
Perché i processi di pace, se vogliono essere veri, devono iniziare così. Qualcuno deve cominciare. Qualcuno deve sorprendere. Ogni gesto di pace è un rischio, ma anche un’opportunità. La storia ci insegna che, quando una delle due parti smette di sparare e tende la mano, spesso l’altra — se davvero vuole la pace — segue.
Per questo oggi non si può far finta di nulla. Il governo turco dovrebbe ascoltare. E rispondere con azioni concrete: porre fine all’occupazione militare dei territori curdi, liberare i prigionieri politici, restituire dignità ai rappresentanti democraticamente eletti delle comunità curde incarcerati con accuse pretestuose. Non è solo una questione di giustizia, è una condizione per il dialogo.
Quel fuoco acceso sulle montagne non è una resa, ma un segnale. Un invito a credere che un’altra storia è possibile. Spegnere le armi, bruciarle è il primo passo per accendere la pace.
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