Raccontare per restare: resistenza culturale tra le montagne del Sud

di Monica Buonanno

Ieri, a Sant’Andrea di Conza in Alta Irpinia, ho partecipato a un incontro con Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. Un incontro che ha offerto spazi di riflessione profonda sul ruolo della cultura, della scrittura e della parola come strumenti di resistenza e di rigenerazione umana. In un contesto carico di memoria e di impegno con la presenza di Luisa Morgantini, Moni Ovadia, Francesco Festa, Omar Suleiman e dei genitori di Mario Paciolla ho trovato rafforzato il concetto di resistenza nelle lotte per la giustizia. Le loro parole hanno ricordato che la cultura non è solo bellezza, ma anche verità, denuncia, impegno. Che la scrittura può essere testimonianza, e che la memoria può diventare azione.
Nelle aree interne, dove il tempo sembra scorrere con un ritmo diverso e la geografia disegna distanze non solo fisiche ma anche simboliche, la parola assume un valore radicale. È strumento di resistenza, di costruzione, di cura. Scrivere, raccontare, leggere: sono gesti che generano spazio, che restituiscono dignità, che aprono possibilità. Raccontare per ricordare …
In territori spesso descritti solo attraverso ciò che manca – infrastrutture, servizi, opportunità – la cultura può diventare infrastruttura invisibile ma essenziale. La parola, in particolare, è il primo mattone di questa architettura. Come scriveva anche Antonio Gramsci, “bisogna persuadere molti che ogni parola è un atto, e che ogni atto può diventare una parola.” In questa reciprocità tra dire e fare, tra pensiero e azione, si gioca la possibilità di rigenerare le aree interne non solo urbanisticamente, ma socialmente e simbolicamente.
E significa anche fare della scrittura un atto politico. Non nel senso partitico, ma nel senso profondo del termine: come costruzione della “polis”, come cura del bene comune. Scrivere delle aree interne, con le aree interne, per le aree interne, è un modo per restituire voce a chi spesso è stato silenziato. È un modo per dire che la marginalità non è destino ineluttabile, ma condizione da trasformare.
La scrittura è anche memoria. È il modo in cui una comunità si racconta, si riconosce, si trasmette. Nei piccoli paesi dell’Appennino, nei borghi del Sud, nelle valli alpine dimenticate, le storie sono spesso custodite oralmente, tramandate nei bar, nelle piazze, nei racconti degli anziani. Ma quando queste storie vengono scritte, diventano patrimonio condiviso, diventano voce. E la voce, come ci ricorda Italo Calvino, è ciò che permette di “salvare qualcosa dal tempo che passa”. Nelle sue Lezioni americane, Calvino parla della leggerezza come valore, non come superficialità: “Leggerezza per me è sinonimo di precisione e determinazione, non di vaghezza.” È proprio questa leggerezza, vista come contrappeso alla pesantezza del mondo, precisa che può aiutare le aree interne a raccontarsi senza retorica, ma con forza.
Tuttavia, oggi più che mai, è necessario interrogarsi sul senso politico delle parole e delle scelte. Da qualche settimana infiamma il dibattito politico sull’introduzione nel PSNAI Piano Strategico Nazionale Aree Interne della distinzione netta tra territori “rilanciabili” e territori “in declino irreversibile” evidenziando che alcune aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza, ma necessitano solo di un piano mirato che le accompagni in un “declino cronicizzato e invecchiamento”.
La formulazione ovviamente ha suscitato un importante confronto pubblico, forti critiche da parte di amministratori locali, studiosi e attivisti, che hanno denunciato il rischio di una “eutanasia amministrativa” per centinaia di comuni montani, collinari e rurali. L’UNCEM (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) ha chiesto di rimuovere la formula, mentre oltre 150 firmatari — tra cui sindaci, urbanisti e operatori culturali — hanno sottoscritto un appello pubblico contro la logica dell’“irreversibilità”.
Secondo i dati ISTAT, oltre l’82% dei comuni delle aree interne perderà popolazione entro il 2043, con picchi del 93% nel Mezzogiorno. Nel solo 2024, 358 comuni italiani hanno registrato zero nascite, concentrati quasi esclusivamente nelle aree interne. Invece di contrastare questa tendenza, sembra essere accettata nei piani governativi come destino, pianificando un “welfare del tramonto” fatto di assistenza minima, ma senza investimenti per trattenere giovani o attrarne di nuovi, rischiando anche di violare lo spirito dell’articolo 3 della Costituzione (la Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli che limitano l’uguaglianza e la partecipazione di tutti i cittadini).
Investire nella cultura nelle aree interne significa creare spazi di parola: biblioteche, laboratori di scrittura, archivi di comunità, festival che non siano solo eventi ma processi. Significa formare educatori, animatori culturali, scrittori, lettori. Significa riconoscere che la scuola, in questi territori, è presidio non solo educativo ma anche sociale e culturale.
Nei fatti, la parola è seme. La scrittura è terreno. La cultura è il clima che permette la crescita. Nelle aree interne, questi tre elementi possono generare fioriture inattese, rigenerazioni profonde, comunità resilienti. Basta ascoltare, leggere, scrivere. E credere che ogni parola, come diceva Calvino, può essere “una piuma che sostiene il peso della realtà”.

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