Aree interne: no al declino programmato

di Tonino Scala*

È difficile credere che nel 2025, in un Paese come l’Italia, un documento ufficiale del Governo, riferendosi alle aree interne del nostro Paese, possa affermare che «queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza, ma nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento».
Parole che sembrano scritte non per pianificare un futuro, ma per certificare la fine di interi territori.
Il riferimento è al Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, che dovrebbe servire a contrastare l’abbandono e lo spopolamento dei piccoli comuni italiani, quei 4.000 Comuni sotto i 5.000 abitanti dove vivono oltre 10 milioni di persone.
E invece, quel piano sembra partire da una resa: accettare che certe comunità siano destinate a invecchiare, a svuotarsi, a diventare marginali. Non più cittadini da sostenere, ma numeri da gestire.
Eppure non si tratta di un semplice documento di analisi, ma di uno strumento strategico. Parliamo di scelte concrete che incideranno sulle politiche pubbliche dei prossimi anni: dal governo del territorio alla lotta al dissesto idrogeologico, dalla rete dei servizi essenziali (scuole, sanità, trasporti) alle infrastrutture digitali, dagli incentivi all’imprenditoria giovanile ai progetti per il rientro dei giovani emigrati.
Tutto ciò che serve per ridare dignità e futuro ai luoghi oggi considerati periferici.
Invece, pare che l’unica visione sia quella del declino accompagnato, una sorta di eutanasia istituzionale delle aree interne. Ma davvero possiamo accettare che un’intera parte del Paese venga trattata come un peso, come un capitolo da chiudere lentamente, senza sussulti?
Una riflessione si impone. Dietro questa impostazione, si intravede una scelta politica chiara: le risorse vengono spostate altrove, verso la spesa militare, verso progetti centralistici, verso un’idea di Paese concentrata nelle grandi città.
Eppure la tenuta dell’Italia dipende proprio da quei territori fragili, da quelle comunità resilienti che resistono nonostante tutto, che tengono vivi scuole, presìdi sanitari, tradizioni, agricoltura di qualità, reti sociali.
Non è retorica. È realtà. Non esiste Italia senza i suoi borghi, senza l’Appennino, senza l’entroterra. Non si può pensare di rassegnarsi a un’Italia a due velocità, dove a qualcuno spettano servizi e diritti, e ad altri silenzio e isolamento.
Il futuro non si accompagna al declino, si costruisce contro di esso. Serve una visione che investa sulle aree interne, non che ne registri il tramonto.
Perché senza equilibrio territoriale, senza coesione, senza presidio umano dei territori, l’Italia diventa più fragile.
E le crepe nei paesi di montagna, nei borghi spopolati, sono le stesse che poi si aprono nelle città: crepe di diseguaglianza, di disagio, di frattura sociale.
Non si può restare indifferenti di fronte a un piano che rinuncia a difendere la parte più delicata del Paese.
Si può e si deve pensare a un’altra direzione. Una direzione in cui le aree interne non siano un problema da gestire, ma una risorsa da valorizzare.
Perché è lì che, forse, si trova ancora il cuore pulsante di un’Italia che non si è arresa.

*Segretario Regionale Sinistra Italiana Campania

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