Di Raffaele Scala
Da Fisciano a Torre Annunziata
Diodato Domenico Bertone nacque nell’antico villaggio di Penta, frazione di Fisciano, in provincia di Salerno, il 10 luglio 1867, figlio di Giuseppe, bettoliere di anni 32 e di Giuseppa Napoli, di anni 24.
Suo padre, Giuseppe Clemente Bertone, era nato intorno al 1835, a Mazzè, piccolo comune della provincia di Torino ed era giunto chissà come e perché, forse all’indomani dell’unificazione italiana al seguito dell’esercito piemontese nella contrada di Penta. Forse era lui stesso un militare spedito in queste lontane contrade del Sud a combattere i briganti che infestavano la zona, o più semplicemente a mantenere l’ordine in una terra non completamente favorevole al nuovo regime dei Savoia, da molti ritenuto usurpatore e spesso dispotico e violento, peggio dei vecchi Borbone. Un dispotismo e un mal governo che aveva ampiamente alimentato il brigantaggio, formando vere e proprie sacche di resistenza soffocate nel sangue, spesso di vittime innocenti. Qualunque sia la ragione della sua venuta, di fatto qui conobbe la più giovane Giuseppa Napoli, figlia di Antonio Diodato, un ex mulattiere poi diventato bottegaio e di Fortuna Pacifico, nata a Penta il 20 febbraio 1843. Diodato Antonio morirà a soli 41 anni, il 4 aprile 1848, lasciando alla vedova l’incombenza di crescere una decina di figli, di cui l’ultima, Rosa, nata il 5 gennaio 1848, tre mesi prima di morire.
Giuseppe e Giuseppa si sposarono il 16 marzo 1865, quando il baldo piemontese aveva 30 anni e lei soltanto 22. Da ex militare divenne bettoliere rilevando l’attività del defunto suocero. Fortuna vivrà fino a 73 anni, morendo l’11 gennaio 1884. Fino all’ultimo lavorerà come filatrice, il mestiere tipico delle donne del popolo del XIX secolo.
Diodato era il secondo di sei figli, assumendo il nome del nonno materno: prima di lui era venuto al mondo Pietro Antonio, nato il 26 novembre 1865 e morto prematuramente il 1 agosto 1867, venti giorni dopo la nascita del nostro protagonista. Al nostro seguirono quattro sorelle, Annamaria (1869 – 1880), Angela Maria nel 1871, Caterina nel 1880 e, infine di nuovo una Annamaria, nel 1883, per dimenticare o tenere vivo il ricordo della sorella prematuramente scomparsa a soli undici anni. Nessuno di loro, per quanto ci è dato sapere, lasciò la provincia di Salerno per quella napoletana. In compenso sappiamo che dopo il matrimonio a Salerno di Caterina e Annamaria, anche i due vecchi genitori decisero di trasferirsi nel capoluogo di provincia, rimanendovi per il resto della loro esistenza. La prima a scomparire fu la più giovane Giuseppa, a 72 anni, il 23 marzo 1915 nella loro casa di Salerno, al Corso Vittorio Emanuele 34. Al vecchio Giuseppe Bertone toccò in sorte non solo di vedere scomparire la moglie, il giovane genero, il siciliano originario di Girgenti, Carmelo Licato, scomparso a soli 38 anni, il 30 luglio 1915, ma soprattutto di sopravvivere allo stesso Diodato. Sarà infatti molto lunga la vita del vecchio patriarca, morendo a 86 anni nella sua casa di Salerno, al Corso Vittorio Emanuele 34, il 1° maggio del 1922.
Dalla scheda personale possiamo in qualche modo ricostruire il suo aspetto, seppure ancora si conserva, fortunatamente, una sua foto, l’unica esistente. Era alto un metro e 67, quasi alto per l’epoca, la cui media nel 1887, anno in cui fu chiamato per il servizio militare di leva, non andava oltre il metro e 64; aveva colorito roseo, capelli castani e dentatura sana. La scheda militare risale al 14 settembre 1887, quando Diodato ha solo venti anni. Dal foglio matricolare non si evince dove e se abbia servito la Patria, probabilmente non lo fece, guadagnandosi la licenza illimitata per motivi a noi ignoti, o più semplicemente perché era l’unico figlio maschio della famiglia, meritandosi l’esenzione.
Non sappiamo con esattezza in quale anno Diodato si trasferì a Torre Annunziata, presumibilmente verso la fine di quello stesso anno, sicuramente non più tardi del 1888, considerando che conobbe sua moglie, la giovane Sabina Gentile, proprio nella antica città di Oplonti, sposandola nel 1890.. Neanche lei era nativa del luogo, ma originaria di Atripalda, un piccolo paese della provincia di Avellino, dove era nata il 25 febbraio 1870, figlia primogenita del 21enne Pellegrino e della diciannovenne Laura Vanotti, figlia dello Stato, di professione filatrice.
Quando salirono sull’altare, Sabina aveva soltanto venti anni, lui appena ventitreenne. Si sposarono la sera del 17 luglio 1890, alle 19,30 di un giovedì che vogliamo immaginare ancora pieno di sole e andarono ad abitare in Largo Annunziata, al civico 2, dove nacque il primogenito Giuseppe il 22 ottobre 1894, giorno di festa a Torre Annunziata per la solennità del santo patrono, la Madonna delle Neve. Non fu molto fortunato il piccolo Giuseppe, morendo a soli tre anni, due mesi e nove giorni, il 6 gennaio 1898. Ancora una volta un giorno di festa, come quando nacque, un giorno particolare per i bimbi di tutto il mondo, ma non per lui, non per la sua disgraziata famiglia. Intanto il 11 novembre 1896 era nato il secondo fratellino, Pellegrino Ettore, nella nuova casa in cui erano andati ad abitare, in via 22 Febbraio. Non ebbero modo di conoscersi bene, di giocare molto tra loro, ma comune fu il loro tragico destino, infatti Pellegrino seguirà il primogenito, Giuseppe, appena dieci giorni dopo, morendo il 16 gennaio 1898 nella casa di via Umberto I, dove erano andati ad abitare dopo l’ennesimo trasloco. Non conosciamo le cause delle due morti. I poveri genitori provarono a dimenticare l’immane tragedia tentando di mettere al mondo un nuovo figlio, il terzo, sul quale riversare il loro affetto, il loro amore. E venne Emma, nata il 31 dicembre di quello stesso, sfortunato anno, il 1898, fortemente voluta da entrambi. E stavolta la fortuna arrise loro, Emma diventerà adulta, si sposerà e avrà diversi figli, uno dei quali, nato il 14 maggio 1923, non poteva non chiamarsi Diodato.
La famiglia Bertone, nel frattempo, aveva nuovamente cambiato casa, andando ad abitare in via del Popolo 115. Inizialmente Diodato non dovette avere un lavoro stabile e sicuro, dalle carte emerge che fece l’armaiuolo, il manovale e chissà che altro prima di essere assunto dalle Ferriere del Vesuvio, poi Ilva, con la qualifica di meccanico, probabilmente sul finire del secolo. Si potrebbe anche ipotizzare una sua assunzione all’indomani dell’inaugurazione dell’acciaieria avvenuta il 30 aprile 1901, un fondamentale ampliamento dello stabilimento che dovette comportare il reclutamento di molti, nuovi dipendenti portando l’organico a circa milleduecento.
Dal primo matrimonio nacquero otto figli: Giuseppe (1894 – 1898), Pellegrino Ettore (1896 – 1898), entrambi prematuramente scomparsi a distanza di dieci giorno l’uno dall’altro; Emma nel 1898, Olimpia nel 1901, Leonida Davide nel 1904, Ida nel 1906, Pietro Michele (1909 – 1909) ed Ermete nel 1910.
Emma si sposerà il 22 gennaio 1921 con Domenico Bozzi; Olimpia con Salvatore Paduano il 16 settembre 1922; Leonida con Flora Braghetti il 22 settembre 1927; Ida, a soli 16 anni, con Pasquale Napodano il 9 marzo 1922; Leonida si trasferirà a Genova nell’ottobre 1948, mentre di Ermete sappiamo che sposò Maria Savino il 28 gennaio 1940. Il matrimonio non durò molto a causa della prematura morte della moglie avvenuta il 9 novembre 1944. Si risposò con Velia Savino, sorella della prima, il 21 febbraio 1949. Intanto si era trasferito a Roma nel dicembre del 1936.
Ma come giunse nell’antica città di Oplonti e perché questa decisione? Possiamo solo fare delle ipotesi. Molti anni prima, intorno al 1875, l’intera famiglia Ricciardi, noti fabbro ferrai di Fisciano, aveva abbandonato il suo paesello per trasferirsi nella più industrializzata Torre, per impiantarvi una Officina di lavorazione in ferro battuto. Nella città dell’Arte Bianca, la famiglia Ricciardi riuscì con gli anni a farsi un nome e una fama, consolidando la sua impresa, non a caso le Officine Ricciardi erano ancora presenti nel secondo dopoguerra con uno dei figli, Aniello Ricciardi, coetaneo e probabilmente amico d’infanzia dello stesso Bertone. Riteniamo altamente verosimile quindi che l’artigiano sia stato il tramite che l’abbia condotto nella industriosa città della pasta e della siderurgia, magari trovando presso la sua azienda il primo lavoro, in considerazione della sua professione di ferraro. Ad avvalorare questa ipotesi è la costatazione che un Ricciardi, Alessio, fu testimone di nozze dei genitori. Una seconda ipotesi, da non scartare, è che Diodato abbia lasciato Fisciano appositamente per essere assunto nella neonata, moderna fabbrica siderurgica fondata proprio nel 1887 da due imprenditori e finanzieri francesi, tali A. Natanson e R. Duchè, denominandola in un primo momento, Natanson-Duchè & C. Anni dopo fu rilevata dalla Società Anonima delle Ferriere Italiane cambiando la denominazione in Ferriere e Acciaierie del Vesuvio.
Sicuramente nel 1887, il giovane Diodato era ancora a Fisciano, come dimostrano le carte del servizio di leva. Inizialmente, quando ancora lo stabilimento portava i loro nomi, gli operai si occupavano del trattamento dei rottami di ferro e gli impianti consistevano unicamente in un laminatoio per la fabbricazione delle travi, fino a quando, verso la fine del secolo, fu acquisita, come si è detto, dalla Società Anonima delle Ferriere Italiane, uno dei maggiori complessi siderurgici del nostro Paese che lo ampliò e ammodernò. Ed infine, ma ormai siamo nel 1911, le Ferriere furono assorbite dall’Ilva, la cui sede principale era a Bagnoli ma, a questo punto, il giovane Diodato era già un dipendente dello storico stabilimento o, forse, vi entrò in virtù della crescita esponenziale dello stabilimento siderurgico, destinato a diventare il più grande e importante della città, se non del circondario, con i suoi mille e duecento dipendenti.
Come andò veramente non lo sapremo mai e le nostre ricostruzioni su tempi e modalità della sua assunzione possono soltanto seguire labili congetture. Ma poco importa all’economia della vicenda storica di cui ci stiamo occupando.
Nella città famosa per la presenza della più antica Fabbrica d’Armi del Mezzogiorno e per i suoi innumerevoli mulini e pastifici, Diodato, rimase anzitempo vedovo e con sei figli a carico. La povera Sabina cessò di vivere il 19 maggio 1913, a soli 43 anni, nella sua casa in via Circumvallazione 2. Ma con troppi figli ancora in tenera età Diodato non poteva permettersi di restare solo. Come abbiamo visto la più grande, Emma, aveva soltanto 14 anni, Olimpia 12, Leonida 9, Ida 7, mentre Ermete, nato il 10 ottobre 1910 aveva poco più di due anni e mezzo. Così, obbligatoriamente, cercò e trovò di nuovo l’amore, impalmando una avvenente fanciulla di agiata famiglia napoletana.[1] Recenti documenti in realtà, smentiscono clamorosamente la versione biografica di Eduardo Ferrone: la giovane sposa era di Torre Annunziata e non aveva ancora compiuto 33 anni al momento del matrimonio, contro i 47 del più maturo Diodato. Era il pomeriggio del 25 giugno 1914, ancora una volta un giovedì, quando si risposò con Margherita Attrice Di Martino (1881 – 1965), figlia di Carlo, Proprietario, e di Elisabetta Atripaldi. Testimoni delle nuove nozze furono l’impiegato Giuseppe Proverbio di 34 anni, un militante socialista, ex amministratore della fallita cooperativa di consumo, L’Emancipazione, e Pasquale Savastano, un commerciante di 45 anni. Dal nuovo matrimonio nacquero altri tre figli, Carlo, il 15 agosto 1915 nel pieno della bufera bellica, nella stessa casa al civico 2 di via Circumvallazione, sposandosi con Olga Balzano il 20 aprile 1947; Wilson il 15 febbraio 1919, sposerà Iola Balzano il 2 ottobre 1949 e, infine, Diodato il 29 maggio 1921. Quest’ultimo nato tre mesi dopo la barbara uccisione del padre. Diodato si sposerà nel 1945 con Anna Raiola, dalla quale avrà tre figli, Carlo, Domenico e Antonio. Nel 1981 a Diodato Junior sarà conferito dal Presidente della Repubblica il titolo di Cavaliere.
Nel Movimento Operaio
Poco, quasi nulla sappiamo della giovinezza del nostro Bertone, neanche se avesse maturato le prime idee socialiste nella sua Fisciano. Riteniamo di no, è molto probabile che sarà il movimentato, focoso e talvolta violento ambiente lavorativo torrese, le ingiustizie, i diritti negati, i continui facili licenziamenti, gli incidenti sul lavoro, spesso mortali, la diffusa miseria, i primi violenti moti popolari del 1898 a fargli capire qual’era il suo posto. La mancanza certa di notizie documentate ci obbliga quindi ad avanzare solo ipotesi, di percorrere la sua vita pubblica riempendola di forse, seppure non lontane dalla verità, mettendo insieme un difficile, faticoso mosaico. Seguendo questo percorso ci sentiamo autorizzati a scrivere che l’11 aprile 1891 era presente in Piazza Ferrovia, mescolato tra i mille accorsi ad ascoltare gli oratori repubblicani, successivamente tutti passati al socialismo, Arturo Giannelli, Alcibiade Morano e il già famoso Gino Alfani, commemorare il repubblicano Aurelio Saffi. Un comizio bruscamente interrotto dal delegato di pubblica sicurezza, intervenuto per raffreddare gli incauti apprezzamenti del giovane molisano contro il governo e finito con un fuggi fuggi generale quando l’oratore si oppose alla guardia rompendogli l’asta della bandiera in testa. Forse partecipò alle proteste operaie dell’agosto 1893 contro il massacro di lavoratori italiani ad Aigues Mortes, in Francia, da parte di inferociti operai francesi in sciopero, ritenendoli, pare a torto, dei crumiri. Non sappiamo. Comunque sia andata, di certo ci fu un momento in cui prese coscienza del suo posto nella classe operaia, inserendosi nel movimento socialista locale e, seppure non da protagonista, parteciperà a tutti gli eventi, assemblee, manifestazioni e scioperi. Non si affermerà come dirigente, non risulta avere mai ricoperto nessun incarico nella sezione socialista e nessuna funzione nella Camera del Lavoro, neppure di Capo-lega, ruolo dove, spesso, bastava saper leggere e scrivere, avere un minimo di spirito d’iniziativa e attitudine al comando. Forse non tutte le caratteristiche erano presenti nella personalità del nostro Diodato, un carattere tranquillo, pacifico, dedito alla sua numerosa famiglia, l’esatto opposto del focoso, passionale, egocentrico, Edoardo Sola. Di sicuro sapeva leggere e scrivere in maniera più o meno corretta, come si evince dai pochi documenti visionati e da lui firmati con grafia chiara e sicura.
Vogliamo immaginare sia stato partecipe con altri del circolo socialista sorto nel 1894, della successiva sezione del Psi nel 1896 e tra quanti costituirono la Camera del Lavoro, fondata il 26 febbraio del 1901 e guidata da Alcibiade Morano, suo primo Segretario Generale. Una Camera del lavoro nata essenzialmente ad opera di due caparbi socialisti, il pittore Edoardo Sola, già protagonista della fondazione del primo circolo socialista di Torre Annunziata e di Cataldo D’Oria, guardiano di mulini, una vita intera spesa nel movimento operaio torrese.
Bertone fu sicuramente amico di Edoardo Sola. Quest’ultimo sostava spesso nelle vicinanze dello stabilimento delle Ferriere del Vesuvio per farvi attiva e proficua propaganda politica, mentre nel 1900 aprì, nella stessa strada in cui abitava Diodato, in via del Popolo, angolo via Carminiello, il circolo socialista, Associazione, Educazione e Previdenza, sopperendo alla chiusura della sezione imposta dal Governo dopo i sanguinosi moti del 1898 e assiduamente frequentato dai militanti e simpatizzanti locali del Psi. E proprio tra i dipendenti delle Ferriere, Edoardo Sola aveva maggiore ascendenza, al punto che quando, nel 1905 decise di schierarsi contro Vito Maldera, Segretario della Camera del Lavoro, per scalzarlo dal suo ruolo, accusandolo di essere un riformista moderato, fondò, per meglio combatterlo, una seconda Camera del Lavoro, di ispirazione sindacalista, composta quasi esclusivamente da operai metallurgici delle Ferriere e perfino un suo periodico, Il lavoratore Vesuviano, fondato il primo luglio 1905, da contrapporre a quello ufficiale, Verità, diretto da Giuseppe De Simone, Segretario della sezione socialista e, successivamente, dopo le dimissioni del primo, da Leopoldo De Nicola. Nella sua battaglia contro Maldera, Sola fu sostenuto da Fedele Venturini, ed entrambi, pochi mesi dopo, a seguito dell’intervento della segreteria nazionale del Psi, furono espulsi dal Partito, ricomponendo l’unità nella martoriata e tormentata comunità socialista di Torre Annunziata, vittima delle frustrate ambizioni di troppi leader, o presunti tali. Una espulsione durata ancora una volta, poco, considerando Edoardo Sola nuovamente protagonista al fianco di Gino Alfani nel 1908, dal quale ebbe il ruolo di propagandista. Un ruolo che gli stava stretto ed infatti pochi mesi dopo lasciò per ripartire di nuovo, vivendo tra Como, Brescia ed infine a Milano, dove si stabilì definitivamente.
La prima, solida testimonianza documentata della attiva militanza politico sindacale di Diodato Bertone la troviamo scritta, nero su bianco, sul quotidiano socialista, l’Avanti! del 21 giugno 1902, in un trafiletto in cui ci è dato sapere che parlò ad oltre 500 persone durante un comizio di propaganda. Con lui il suo compagno e collega delle Ferriere, l’operaio Vincenzo Fontana, corrispondente locale del quotidiano Avanti! Qualche mese prima, in aprile, vi era stato un piccolo sciopero nelle Ferriere del Vesuvio a seguito dello spostamento di un operaio da un reparto all’altro e quando alcuni operai ne chiesero la motivazione all’ingegnere che lo aveva imposto ne ebbero una risposta sferzante ed arrogante provocando l’immediata protesta del reparto, una trentina di operai dei forni. L’intervento di una commissione della Lega metallurgica, fece rientrare lo sciopero. Nell’articolo non si fa il nome di Bertone, ma viene spontaneo chiedersi se della commissione fece parte e noi rispondiamo di sì, proprio in considerazione del successivo comizio in piazza. Sicuramente era stato presente anche alla manifestazione del Primo Maggio, dove alta era stata la partecipazione degli operai delle Ferriere del Vesuvio al comizio tenuto da Edoardo Sola. Militanza che si conferma e si consolida nel 1904 quando è candidato nella lista del Psi, impegnato nelle elezioni amministrative del 7 agosto, in compagnia dei maggiori esponenti del movimento operaio locale, tra cui Carlo Califano, segretario della Lega Pastai, Leopoldo De Nicola, segretario della sezione, l’avvocato Giuseppe De Simone, direttore dell’organo di partito, Verità, ed ex segretario della stessa sezione, Beniamino Romano, futuro segretario della Camera del Lavoro di Gragnano e di Castellammare di Stabia[2] e il pittore Eduardo Sola, la vera anima del primo movimento operaio di Torre Annunziata prima di lasciare il testimone al grande molisano, Gino Alfani che lo guiderà per oltre un ventennio assumendo la carica di Segretario Generale della Camera del Lavoro.
Nessuno della lista socialista fu eletto, nonostante il grande lavoro svolto tra gli operai e la presenza ormai affermata della Camera del Lavoro, a riprova di come l’adesione sindacale va distinta dall’opinione politica.[3] Va pur detto che forse pesò, e non poco, la dura sconfitta dopo 70 giorni di eroica lotta, giorni trascorsi andando spesso a letto senza aver toccato cibo, accontentandosi di mangiare una volta al giorno, nella migliore delle ipotesi, patate bollite offerte da contadini caritatevoli. Una sconfitta che mise seriamente in forse la stessa sopravvivenza della Camera del Lavoro, ma fortunatamente non fu così.
Nel dicembre 1904, seguendo il nostro ipotetico percorso in mancanza di idonea documentazione, lo immaginiamo verosimilmente alla testa, o comunque partecipe di una protesta dei lavoratori delle Ferriere del Vesuvio, a seguito della sospensione dal lavoro, da parte della direzione aziendale, dei circa 800 dipendenti per la mancanza di vagoni, indispensabili per il trasporto del carbone, materiale necessario per garantire la produzione. I vagoni erano normalmente forniti da un’azienda ferroviaria, concessionaria di Stato, la Mediterranea che serviva l’intera linea ferroviaria e le circa trenta acciaierie presenti in Italia, unite nel cosiddetto trust, al fine di monopolizzare prezzi e prodotti di ferro e acciaio. La capacità di produzione della Mediterranea lasciava molto a desiderare, incapace perfino di garantire materiale ferroviario e vagoni nuovi ai suoi treni, vecchi e superati, provocando spesso incidenti e disgrazie con scioperi e manifestazioni dei suoi stessi ferrovieri. Inutilmente una rappresentanza di operai si era rivolta al sindaco, al Prefetto e finanche al deputato locale, il ministeriale e poco presente, se non completamente assente sulle problematiche locali, Alessandro Guarracino. Correttamente l’Avanti! in un suo articolo sottolineava la doppia, ambigua linea del governo monarchico, ricordando che se fossero stati i lavoratori a sospendere il lavoro di loro iniziativa, sarebbero accorsi tutte le autorità della provincia e, tra i primi, un paio di reggimenti di soldati per tutelare la sacrosanta libertà del lavoro da garantire in qualunque caso e ad ogni costo alle imprese.
I lavoratori delle Ferriere erano sicuramente inquadrati in una Lega, almeno questo sembra provato da un articolo dell’Avanti! in cui ricorda la solidarietà dell’aprile 1904 dei lavoratori siderurgici organizzati a favore del famoso, sfortunato sciopero dei mugnai e pastai. Lega poi passata, o ricostituita nella nuova Camera del Lavoro socialista, sorta nel giugno 1905 e subito forte di oltre 400 iscritti. La nuova organizzazione economica era stata fondata da Edoardo Sola in contrapposizione a quella ufficiale diretta da Maldera, ritenuta riformista e moderata, mentre la seconda, con sede in via Mazzini 14 e diretta da Attilio Bronzi, si dichiarava sindacalista, seguendo la linea nazionale imposta da Arturo Labriola. Sola si era riservato per sé la guida della seconda sezione socialista, ritenuta più utile per le sue battaglie politiche dentro e fuori il Partito. Non è dato sapere se Bertone seguì il suo amico Sola, nella pur breve avventura sindacalista, prima della nuova espulsione. Comunque sia il problema delle Ferriere si risolse nel giro di qualche giorno con la ripresa del lavoro di tutti i dipendenti, ma si ripresentò identico nel febbraio 1906, quando, ancora una volta, esaurita la provvista a terra e per la cronica carenza dei vagoni necessari al trasporto del carbone e degli altri indispensabili materiali, la direzione aziendale pensò bene di licenziare oltre mille lavoratori, utilizzandoli come ariete per risolvere le problematiche aziendali, scagliandoli come agnelli sacrificali contro le autorità e le istituzioni per fare le dovute pressioni nei confronti del ministero competente. I lavoratori ne erano ben consapevoli ma non avevano scelta se volevano difendere il loro magro salario. Ancora una volta toccava a loro rimboccarsi le maniche facendo il lavoro sporco di scendere in piazza e protestare, chiedendo l’aiuto delle varie istituzioni e autorità politiche. Ma stavolta tutto parve inutile, gli operai ed i loro rappresentanti della Commissione sindacale fecero la solita trafila rivolgendosi all’amministrazione comunale e al Prefetto per avere giustizia e a nulla valse la mediazione del deputato locale, il monarchico Alessandro Guarracino, eletto per la prima volta in parlamento e vincitore del collegio sul socialista, Eugenio Guarino, celebrato Segretario della Camera del lavoro di Napoli. Guarino era diventato famoso a Torre Annunziata per aver guidato l’importante sciopero generale che coinvolse l’intera classe operaia torrese e durato oltre 70 giorni tra aprile e giugno 1904. Su quella grandiosa prova di coraggio e sacrificio si era espressa perfino la stessa Matilde Serao con un suo famoso articolo pubblicato sul quotidiano, Il Giorno, giornale da lei stessa fondato pochi mesi prima. Intanto, dove fallirono le autorità locali, vi riuscì il deputato socialista, Mario Todeschini, inviando un telegramma al Ministro Edoardo Pantano, vecchio garibaldino e repubblicano, sollecitandolo a risolvere un problema ormai annoso. La risposta arrivò a stretto giro, impegnandosi a procurare i vagoni ferroviari necessari al trasporto del materiale alle Ferriere. Per una volta un ministro mantenne l’impegno preso e nelle Ferriere il lavoro riprese senza ulteriori intoppi il successivo 18 febbraio, riassumendo una parte degli operai licenziati.
Bertone doveva essere un buon oratore, capace di intrattenere le persone che lo ascoltavano, un affabulatore si potrebbe dire, infatti lo troviamo ancora una volta presente sul palco per il suo ennesimo comizio del primo maggio 1907. Giolitti quell’anno aveva deciso di vietare le manifestazioni pubbliche per la Festa dei Lavoratori, ma questo non poteva scoraggiare i nostri rivoluzionari e in mancanza di meglio, come sempre accadeva in questi casi, si rifugiarono nell’ampio salone della Camera del Lavoro dove parlarono Maldera, Gino Alfani e Bertone. Da un telegramma del Prefetto di Napoli al Ministero dell’Interno, troviamo, per la prima volta documentato il nome di Bertone da parte di un delegato di polizia ad un comizio privato tenutosi nella Camera del Lavoro di Torre Annunziata il 5 aprile 1908 quale forma di protesta contro l’ennesimo, barbaro, eccidio proletario verificatosi a Roma due giorni prima. Nella capitale d’Italia a perdere la vita per mano degli agenti di pubblica sicurezza e carabinieri furono tre inermi cittadini al seguito di un funerale di un compagno operaio morto sul lavoro. La loro colpa fu quella di attraversare una strada, via del Plebiscito, proibita ai cortei, funerali compresi, provocando l’immediata reazione delle forze dell’ordine, sempre pronta a caricare la folla inerme al seguito del carro funebre. A tenere i comizi nel salone di via Eolo, furono, naturalmente, il nuovo Segretario Generale, Gino Alfani, chiamato a sostituire il 20 febbraio il dimissionario Cataldo Maldera, ma soprattutto a far rinascere una organizzazione sindacale in profonda crisi organizzativa e ideologica; l’impiegato privato, Vincenzo Cirillo e Diodato Bertone.
Naturalmente non doveva essere la prima segnalazione fatta dal delegato, ma questo telegramma è l’unico documento ufficiale trovato, nonostante le varie ricerche effettuate. Come abbiamo già avuto modo di dire, Diodato non era considerato un elemento pericoloso per le istituzioni monarchiche e come tale non era sottoposto a sorveglianza, almeno non costantemente e tanto meno era stato aperto un fascicolo a suo nome, schedandolo nel famigerato Casellario Politico Centrale. Fatto abbastanza anomalo, considerando che bastava davvero poco per ritrovarsi attenzionato da parte della pubblica sicurezza e quel minimo Bertone lo aveva ampiamente superato con le sue pubbliche uscite, tra scioperi, comizi e manifestazioni di varia natura, politiche e sindacali. Ancora nel giugno 1908 guida una protesta operaia contro una legge sul riposo settimanale approvata dal parlamento nel luglio dell’anno precedente con la quale si era previsto per le industrie che hanno fornaci a fuoco continuo, il riposo di 30 ore ogni quindici giorni consecutivi di lavoro al posto del riposo settimanale in uso nelle altre industrie, cadendo normalmente di domenica. Lottarono per oltre 80 giorni consecutivi, senza avere sussidi di solidarietà da parte delle altre categorie, se non dalla stessa Federazione nazionale della Fiom, ma alla fine ottennero la sacrosanta vittoria del riposo settimanale. Altri scioperi si ebbero in quello stesso anno, il 22 dicembre, per contestare l’inusuale applicazione delle legge sugli infortuni operata a sua interpretazione dalla dirigenza aziendale volendo troppo spesso obbligare lavoratori infortunati a rientrare anzitempo al lavoro. Uno sciopero durato dieci giorni chiedendo l’allontanamento dell’avvocato Gaggi dall’ufficio medico e la formazione di una commissione mista per dirimere tutte le questioni controverse relative ai casi d’infortunio.
Non era facile e neanche comodo il lavoro nelle Ferriere i cui ritmi erano pesanti e spesso si andava oltre le dodici canoniche ore quotidiane per sei lungi giorni a settimana, multe e sospensioni erano all’ordine del giorno e non mancavano gravi infortuni, troppo spesso mortali, come accadde il 30 gennaio 1902 con l’orribile morte di Antonio Kass, 37 anni, padre di 4 figli, rimasto schiacciato fra una piallatrice. Passerà soltanto un mese e un nuovo incidente mortale, ancora un giovane operaio, Giuseppe Annunziata, addetto alla manovra, si sfracellava sotto le ruote di un carro ferroviario, lasciando moglie e un figlio. Quattro morti in meno di un anno, ricordava con orrore l’organo nazionale dei socialisti. Sempre l’Avanti! ci testimonia due incidenti mortali in pochi giorni avvenuti a fine agosto 1906: il primo accaduto il 23 agosto riguardava Di Nunzio Raffaele Maddaloni, un ventenne addetto al treno serpentaggio, rimase avvolto da un filo metallico spezzandolo letteralmente in due parti, il secondo incidente toccò ad un ragazzo di 24 anni, Gennaro Izzo, sposato con figlio, schiacciato da una rotaia di quattro quintali precipitatagli sulla schiena da un altezza di due metri, uccidendolo all’istante. E di questi incidenti scriveva sull’Avanti! il Segretario della Camera del Lavoro, Maldera, chiarendoci la situazione sindacale all’interno dello stabilimento:
Non è il primo né l’ultimo infortunio mortale che si verifica nelle Ferriere del Vesuvio e i numerosi lavoratori che ivi lavorano restano indifferenti, non si organizzano e non pensano a circondare di miglior garanzia la propria esistenza. Essi si accontentano unicamente di sfilare in corteo funebre per dare l’ultimo attestato di affetti ai poveri estinti.[4]
Evidentemente la Lega siderurgica, sorta nel giugno 1905, era durata il tempo di vita della seconda Camera del Lavoro sindacalista fondata da Edoardo Sola, entrambe scomparse con la sua espulsione dal Psi a seguito del deciso intervento della direzione nazionale del partito nel giugno 1906, mandando l’onorevole Mario Todeschini a mettere in chiaro la sempre più ambigua situazione e Silvano Fasulo quale commissario per ricostituire su nuove basi la sezione di partito. Una nuova e più solida Lega metallurgica infine nacque pure nella recalcitrante Ferriere del Vesuvio, come documentato in un articolo apparso sull’Emancipazione, organo socialista dei lavoratori vesuviani, del 5 marzo 1910, su iniziativa di alcuni operai guidati da Luigi Cipriani, un ex commerciante da poco assunto dall’impianto siderurgico, Raffaele Oliva ed altri, tra cui ipotizziamo lo stesso Bertone. Alla riunione era presente il segretario della Fiom locale, Michele Manzo per lo studio di un memoriale nel quale chiedere alcuni diritti per il benessere di tutti i lavoratori.[5] La nascita di questa Lega doveva risalire probabilmente almeno ad un anno prima, quando gli operai scioperarono per partecipare ad una manifestazione elettorale indetta dalla Camera del Lavoro per consentire di ascoltare i vari oratori candidati, tra cui Lucci e Sandulli, il segretario della Camera del Alfani, ma soprattutto il loro beniamino e compagno di lavoro, Luigi Cipriani, nuovo astro nascente del sindacalismo locale.
Con il trascorrere degli anni Bertone è sempre più presente nella vita della Camera del Lavoro, non a caso partecipa da protagonista all’importante Convegno di Torre Annunziata del 13 luglio 1909, con la partecipazione di oltre cinquanta organizzazioni economiche della Campania in rappresentanza di quasi cinquemila iscritti, provenienti principalmente da Salerno, Caserta, Castellammare di Stabia, Gragnano, Scafati e, naturalmente, Torre Annunziata. Per la Federazione nazionale dell’Arte Bianca venne, Giovanni Agnolini, mentre per la Confederazione, il milanese Ludovico D’Aragona, futuro Segretario Generale della Confederazione Generale del Lavoro (CGL), ma a quel tempo, ispettore propagandistico, nella occasione anche in rappresentanza della Federazione metallurgica. L’intento era quello di organizzare una Federazione Meridionale a partire dalle poche e scarse forze presenti nelle zone a più forte sviluppo economico, iniziative lodevoli, perfino generose, ma spesso si risolvevano quasi esclusivamente sul piano propagandistico, senza nessun effetto concreto, non trovando terreno fertile nella difficile e complessa realtà meridionale. Intanto quel giorno Diodato Bertone era presente, con Alfani, Cipriani, Beniamino Romano, Carlo Califano ed altri. Non entrerà nel ristretto gruppo chiamato a dirigere la nascente organizzazione campana, compito destinato a Luigi Cipriani per Scafati, città di cui era nativo, più precisamente proveniente dalla sua popolosa frazione di Valle di Pompei, Vito Lucatorto per Castellammare, Alfani per Torre Annunziata e così via. All’esperto e ormai collaudato Carlo Califano il compito di guidare la Federazione.
Non passerà molto tempo quando, La Fiaccola, periodico locale, nel suo numero 10 del 16 ottobre 1909, citerà Bertone quale oratore, con Gino Alfani in un comizio tenuto presso la sede sindacale dopo un imponente corteo tenuto per protestare contro la condanna a morte di Francesco Ferrer, pensatore e anarchico spagnolo. Ferrer era stato arrestato il precedente 31 agosto perché ritenuto tra i fomentatori della sanguinosa insurrezione barcellonese contro la guerra in Marocco e per questo fucilato il 13 ottobre dopo un processo farsa. Ormai militante convinto e dirigente affermato, ritroviamo Diodato nuovamente il 17 agosto 1910 presiedere un affollato e turbolente comizio a Piazza Annunziata contro il caro pigione, al quale parteciparono oltre seimila operai, diecimila le presenze complessive, considerando la notevole partecipazione di comuni cittadini interessati all’argomento. Con lui parlarono il Segretario della Camera del Lavoro, Gino Alfani, il capo lega Beniamino Romano e l’operaio delle Ferriere, Luigi Cipriani.
Non abbiamo trovato traccia di suoi interventi a favore di altri due protagonisti del movimento operaio, stavolta americano, Arturo Giovannitti e Giuseppe Ettor, due sindacalisti italiani, il primo emigrato negli Usa e il secondo americano di nascita ma italiano di origine, entrambi accusati di aver partecipato all’uccisione il 19 gennaio 1912, di un operaia tessile durante uno sciopero da loro organizzato e nel corso degli scontri che seguirono con le forze dell’ordine. Un terzo arrestato, considerato l’omicida materiale, fu l’operaio Giuseppe Caruso, uno dei partecipanti allo sciopero. Incarcerati senza prove, il loro caso suscitò vaste reazioni nell’opinione pubblica americana e, successivamente nel resto del mondo, anticipando il caso più clamoroso, di Sacco e Vanzetti, finito tragicamente. Una mobilitazione imponente con scioperi e manifestazioni portò i tre imputati ad essere scagionati nel novembre dello stesso anno. L’area torrese stabiese non rimase assente con comizi e manifestazione che si ebbero, tra il 17 agosto e il 27 novembre 1912, a Castellammare di Stabia, Gragnano, Scafati, Portici, Scafati e Torre Annunziata, dove se ne ebbe più di uno. Tra gli oratori si ricordano Beniamino Romano, in quel tempo Segretario della Camera del Lavoro di Gragnano e, per alcuni mesi, anche di Castellammare e Gino Alfani, ma non Bertone, già politicamente in crisi ed emarginato dalla sezione e dalla Camera del Lavoro. Era lo stesso anno in cui la sua militanza politica e sindacale crollò a seguito del durissimo sciopero delle Ferriere iniziato ad agosto, o forse era già in crisi, per altri motivi, non sappiamo bene, forse aveva aderito al Circolo di socialisti dissidenti, Andrea Costa, andando in contrasto con la sezione del Psi, forse la malattia e la successiva morte della moglie. In realtà non conosciamo i veri motivi, possiamo, ancora una volta soltanto avanzare delle ipotesi. Se fu lo sciopero la causa, un motivo potrebbe essere l’avere troppi figli, la necessità di mantenersi stretto il lavoro, di non perderlo, il salario troppo basso, non sappiamo con certezza, ma di fatto, si rivelò essere un protagonista in negativo nella dura e sfortunata vertenza, nata a seguito del licenziamento di un operaio, che oppose per nove mesi, tra l’estate 1912 e la primavera del 1913, i circa mille operai della Ferriera del Vesuvio contro il potente trust che vedeva nella forte Lega metallurgica di Torre Annunziata un nemico non da piegare ma da abbattere per evitare una sua crescita esponenziale in fabbrica. Una crescita di cui vi erano tutti i segni premonitori, grazie all’incredibile magnetismo di dirigenti capaci e forti, come Luigi Cipriani, dal vulcanico carisma.
Cosa fece Diodato Bertone durante questi mesi infuocati, tra occupazione della fabbrica, intimidazioni poliziesche e licenziamenti? Come si comportò lo apprendiamo da un duro articolo pubblicato sulla prima pagina del quotidiano nazionale del Partito Socialista, l’Avanti!
In assemblea è stato deplorato vivamente la condotta di Diodato Bertone, ex compagno socialista, il quale, oltre a tradire la causa dello sciopero ha tentato di trascinare nel baratro della vergogna altri compagni di lavoro. Il Bertone avendo tentato di intimidire la moglie di uno scioperante, a nome Sorrentino Domenico, la donna lo rimbeccò vivacemente rinfacciandogli il suo passato socialista e facendogli notare l’infamia del tradimento consumato a danno dei propri compagni.[6]
Sempre dall’organo socialista apprendiamo che il 25 settembre 1912 alcuni dirigenti del Comitato di agitazione delle Ferriere, aderenti al Circolo Andrea Costa e composto da socialisti dissidenti non aderenti al partito, avevano sollecitato l’intervento del locale deputato, Alessandro Guarracino. Costui non se lo fece ripetere la seconda volta: le elezioni politiche generali non erano lontane, il suffragio universale aveva notevolmente allargato la platea elettorale, consentendo a molti operai di recarsi al voto per la prima volta e il politico locale aveva molto da farsi perdonare se voleva essere riconfermato, pertanto si recò senza perdere tempo in direzione per tentare una impossibile mediazione. Ricevuto un cortese rifiuto dal direttore, il deputato non si arrese, recandosi a Roma, sollecitando un intervento dello stesso Arturo Luzzatto, ascoltato deputato friulano, nonché ingegnere e industriale, fino ad arrivare al potente Teodoro Cutolo, azionista del trust siderurgico e di mille altre iniziative imprenditoriali, tristemente conosciuto dai pastai e mugnai torresi nell’ambito degli storici primi sciopero del 1901 e del 1904.
Il preoccupato deputato del collegio torrese arrivò a scrivere allo stesso Giolitti, facendo presente la drammatica situazione nella quale era precipitata la durissima vertenza, innanzitutto per la posizione del suo direttore, Quirico Mani, fermo nella sua decisione, su evidente mandato dell’azionariato, di ritenere dimissionaria l’intera manodopera. Lo stesso gruppo del circolo dei socialisti dissidenti, Andrea Costa, si era maldestramente mosso, sostenendo ed enfatizzando tra gli operai l’operato di Guarracino, ma era politicamente isolato da quando, l’anno precedente, aveva sollecitato, durante una assemblea di lavoratori, su invito subdolo della stessa direzione aziendale, una sottoscrizione, partita a livello nazionale, a favore delle vittime della guerra libica, in forte contrasto con la linea nazionale del Partito socialista. Iniziativa scongiurata dalla stessa Camera del Lavoro provocando più forti dissidi con il gruppo e la loro definitiva emarginazione. Contro la notizia della grave mediazione di parte della Commissione sindacale, intervenne in prima persona Bruno Buozzi, sconfessando l’articolo del giornalista e accusandolo di essere strumento delle beghe che da anni imperversavano tra i socialisti torresi. Lo stesso Buozzi stava seguendo da vicino la vertenza sindacale e quindi ben sapeva come stavano le cose. Comunque sia andata, riteniamo possibile che tra i dissidenti ci fosse lo stesso Bertone, intenzionato a mediare nella lunga vertenza per evitare una possibile, dolorosa sconfitta, come in effetti fu. E come era già accaduto di recente, nell’estate 1911, a Piombino, dove gli operai dell’Alto Forno furono costretti ad arrendersi senza condizioni dopo una strenua, dura lotta.
Non sappiamo con certezza come andarono realmente i fatti. Possiamo ipotizzare semplicemente che Diodato, forse per la prima volta, ebbe veramente paura, paura dello spettro del licenziamento: probabilmente in quei giorni, forse già da settimane la moglie Sabina non stava bene, sintomi di una morte prematura giunta in concomitanza della fine dello sciopero, quel maledetto 19 maggio 1913, la stessa data che aveva anche proclamato la durissima sconfitta degli operai delle Ferriere, costretti ad ammainare la bandiera bianca, senza condizioni. La lega siderurgica si era mostrata nell’occasione straordinariamente combattiva, non a caso poteva contare su oltre 880 sindacalizzati sui 950 dipendenti, decisi ad arrivare fino in fondo nella loro sacrosanta battaglia di civiltà, ma purtroppo lo spirito di sacrificio, la capacità di resistere, la volontà di lottare non furono sufficienti e persero, pagando a caro prezzo la sconfitta con oltre 300 licenziamenti, altrettanti avevano deciso di andare via, cercandosi un altro lavoro.
Non era facile in quei frangenti rimanere lucidi, vedovo con cinque figli da mantenere e troppe bocche da sfamare. Tutto diventava maledettamente più complicato. Non era una situazione facile da gestire e crollò, rinnegando le sue idee, vendendo l’anima al nemico, al padrone, diventando suo malgrado un crumiro, bestemmia di ogni militante socialista e sindacale. Non fu il solo, altri vennero meno, ma il suo era un nome importante del socialismo torrese, a lui non poteva essere perdonata nessuna debolezza, nessuna viltà.
Per sventare la pericolosa defezione degli operai lo stesso Gino Alfani, accompagnato da volenterosi giovani del Circolo socialista giovanile, non esitò ad andare casa per casa per snidare i lavoratori, stanchi e rassegnati, per farli ritornare sul loro campo di battaglia.[7] Ma ormai la fine era arrivata.
Ma quando la grande paura passò – forse dopo il secondo matrimonio celebrato il 25 giugno 1914, con la più giovane, Margherita Attrice Di Martino, di appena 33 anni – e la vergogna della sua debolezza, la consapevolezza che non poteva finire in questo modo la sua storia di militante e di dirigente socialista, lo fece rinsavire prendendo coscienza del male fatto, degli errori commessi, decise che non poteva chiudersi in questo modo la sua vicenda politica. E allora si umiliò chiedendo scusa e fu perdonato, rientrando ben presto nelle fila del movimento operaio, riprendendo il posto che gli spettava.
L’errore di essere capitolato, vittima della disperazione o di una errata valutazione politica, non portò Diodato a cancellare quel periodo oscuro della sua vita, non lo rimosse, come avrebbero fatto tanti altri, per non morire della sua stessa vergogna. Era consapevole del suo errore e aveva chiaro quanto grande era stata la sfortunata battaglia portata avanti dai suoi compagni. Non dimenticò mai, non poteva farlo, quel formidabile braccio di ferro, quella bella pagina di lotta sindacale, censurando il suo operato. Anni dopo, infatti, partecipando al VII Congresso nazionale della Fiom, tenutosi a Roma dal 1° al 4 novembre 1918, intervenne nel corso della seconda giornata dei lavori ricordando, senza esitare, la gigantesca lotta di Torre Annunziata, quell’incredibile, eroica avventura sindacale vissuta tra l’11 agosto 1912 e il 19 maggio 1913, che vide la partecipazione appassionata dei maggiori leader nazionali del Partito Socialista e della Confederazione Generale del Lavoro, tra i quali un giovanissimo Amedeo Bordiga. Notoriamente il futuro fondatore e leader carismatico del Partito Comunista d’Italia fece le sue prime esperienze di dirigente politico proprio sull’area torrese stabiese, partecipando e sostenendo le lotte degli operai e delle operaie di Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Gragnano e Scafati, sostenuto e coadiuvato da un gruppo di giovani locali tra i quali si ricordano Antonio Cecchi, Oscar Gaeta, Oreste Lizzadri e il più maturo e smaliziato Gino Alfani. Non a caso lo stesso Circolo Carlo Marx si offrì di prendere presso di sé, per tutta la durata dello sciopero i bambini degli scioperanti, mentre la sezione socialista di Castellammare di Stabia organizzò conferenze a pagamento per raccogliere denaro da distribuire agli operai in lotta. La prima di queste, intitolata, La missione sociale della donna, si tenne il 6 aprile in un teatro stabiese con oratore Alfredo Sandulli. Vogliamo qui ricordare per inciso che uno dei più attivi socialisti stabiesi, Ignazio Esposito, sposerà Enrichetta Giannelli, la figlia di Arturo, l’antico socialista di Torre Annunziata, ma originario di Salerno, dove nacque il 7 maggio 1859 e prematuramente scomparso nel 1904. A sua volta la stessa Enrichetta era diventata un’attiva militante del Partito socialista e iscritta fin da ragazza nel locale circolo giovanile con la sorella minore, Stella.
Imponente era stato lo sforzo finanziario della Confederazione, che aveva contribuito con oltre ventiduemila lire a sostegno della invincibile resistenza degli eroici scioperanti di Torre Annunziata.[8] Nello stesso congresso Diodato intervenne nel corso della quarta e ultima giornata a proposito della necessità della conquista delle otto ore e ammonendo che questa non doveva avvenire a discapito del salario.[9]
La seconda, giovane moglie gli darà altri tre figli, il primo dei quali, Carlo Trieste Trento, nascerà il 15 agosto 1915, il secondo sarà Wilson, nato il 15 febbraio 1919. Non conosciamo i motivi del nome straniero, possiamo solo ipotizzare che forse lo fece in onore del Presidente americano, il democratico Thomas Woodrow Wilson, eletto nel 1913 e in carica fino al 1921, premio Nobel per la pace e uno dei protagonisti della Conferenza di pace di Parigi all’indomani della fine del primo conflitto mondiale[10], il terzo e ultimo si chiamerà Diodato, nato il 29 maggio 1921, tre mesi dopo la sua prematura, tragica morte.
La ritrovata serenità dopo il buio della malattia e la morte della prima moglie, portarono Bertone verso la giusta strada e il 1° maggio 1916 vide di nuovo i lavoratori delle Ferriere partecipare con entusiasmo alla festa dei lavoratori e al comizio tenuto presso la Camera del Lavoro, dove intervennero numerosi oratori, tra cui Antonio Cecchi, Gino Alfani, l’anarchico Merchionne, Bordiga e sua moglie Ortensia De Meo. Non è dato sapere di una sua partecipazione, di sicuro non si era ricomposta la disciolta Lega dopo la dura sconfitta del 1913, ma era di sicuro il segnale di una possibile ripresa del movimento operaio e quale migliore occasione di una lettera al quotidiano socialista in cui riaffermare il proprio ruolo, la giusta posizione nel campo della difesa dei diritti dei lavoratori, rivendicando il suo orgoglio di militante socialista? E così noi immaginiamo il suo ritorno, scrivendo il 2 novembre 1916 una lettera all’Avanti!, seppure non firmata. Sarebbe stato troppo pericoloso, ma chi doveva capire, chi doveva sapere, conosceva bene chi era l’accusatore. Chi aveva scritto il duro articolo contro la direzione delle Ferriere del Vesuvio doveva per forza di cose essere un operaio specializzato, ben addentro nella fabbrica, uno del quale la produzione aziendale non poteva fare a meno, un capo macchinista di nome Diodato Bertone.
Nella lettera si denunciano le malefatte del direttore dello stabilimento, l’ingegner Vivanti, e dei suoi subordinati, tra i quali un certo, Vincenzo De Vito, caposquadra alla manutenzione, un piccolo dittatore come sono sempre esistiti in ogni tempo e in ogni luogo di lavoro, pronti ad abusare dei loro piccoli poteri per nascondere la propria incapacità al comando. In questo modo il De Vito minacciava di inviare al carcere militare chiunque avesse da protestare contro le sue angherie o chiedeva miglioramenti salariali o maggiore sicurezza sul lavoro. Altro infame era il vigilante al treno grosso, Giovanni Tedesco, il quale assunto come facchino, era talmente povero da non avere neanche di che vestirsi e in questo fu aiutato dalla generosità dei compagni pronti a regalargli camicia, giacca e pantaloni. Ma bastò poco per dimenticare il suo passato, l’aiuto ricevuto e si dava adesso arie da generale. Caparbio e arrogante pretendeva di essere sempre obbedito ad ogni suo ordine senza protestare, pena severi provvedimenti. Il nostro anonimo socialista, ma per noi Diodato Bertone, chiuse la sua lettera chiamando i compagni ad organizzarsi, per far valere e rispettare i nostri diritti, per farci forti contro tutte le classi borghesi e per prepararci per le lotte future. Organizziamoci compagni![11]
Pochi giorni prima era venuto a Torre Annunziata, Giuseppe Emilio Colombini, segretario nazionale della Fiom per riorganizzare la fila della categoria, tenendo un assemblea con tutti gli operai metallurgici della città, sollevando entusiasmo tra gli iscritti alla Camera del Lavoro. Aveva fatto altrettanto a Napoli con gli operai della Miani e Silvestri, delle Industrie Meccaniche, nelle Officine Pattison e del Proiettificio Partenopeo, raccogliendo ovunque vaste adesioni. Lo stesso accadde a Torre Annunziata, dove le sue parole non rimasero vuote. Nel giro di poche settimane fu ricostituita la sezione della Fiom tra gli operai delle Ferriere e già il 19 dello stesso mese nei saloni della Camera del Lavoro si tenne una prima riunione con la presenza di Gino Alfani e di Francesco Amateis ispettore per la Confederazione del Lavoro. Nell’occasione si discusse del memoriale da presentare alla direzione delle Ferriere. Era la grande occasione di Diodato Bertone, ormai ritornato a pieno titolo alla guida del movimento operaio della sua fabbrica, seppure il vero leader riconosciuto dagli operai era Luigi Cipriani, le cui capacità di leader si erano ormai da tempo affermate e non a caso destinato a diventare un leader nazionale della Fiom, mentre nel 1919 sarà candidato alle elezioni politiche nelle liste del Psi. Bruno Buozzi lo definì, l’anima del movimento operaio dell’Italia meridionale.
Non lo ritroviamo tra gli oratori del 1° maggio del 1917, nonostante la presenza massiccia degli operai delle Ferriere, lasciando ancora una volta la parola al giovane rivoluzionario, Antonio Cecchi a all’esperto Alfani, ma era ritornato nel campo che più gli competeva e infatti lo ritroviamo tra gli oratori del primo maggio 1918, tenutosi per gli eventi bellici ancora in corso nei locali della Camera del Lavoro. Il suo discorso entusiasmò gli operai, applaudendolo freneticamente. Al suo fianco il mai domo Gino Alfani, onnipresente e sempre più potente capo politico – sindacale, consigliere provinciale, prossimo a indossare anche la fascia tricolore di primo cittadino della città apontina. Ormai consapevole del suo ruolo di dirigente, il 2 settembre, Diodato, con Ettore Fortuna, presenziò, ancora una volta nei saloni della Camera del Lavoro, ad una folta platea di ragazzi del circolo giovanile socialista, in unione con quella adulta, un comizio di solidarietà al socialista americano Thomas Mooney, arrestato e condannato per un attentato dinamitardo compiuto a San Francisco il 22 luglio 1916, provocando dieci morti e quaranta feriti. Contro di lui furono fabbricate false prove, sulla scia di quando era già accaduto ad altri militanti di sinistra e come accadrà non molto tempo dopo a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, due anarchici italiani condannati ingiustamente alla sedia elettrica, pena eseguita il 23 agosto 1927. Mooney fu più fortunato: condannato a morte, la pena fu tramutata in ergastolo e uscirà dal carcere soltanto nel 1939, morendo tre anni dopo nel 1942.
Oltre alla solidarietà al socialista americano, Diodato e Ettore Fortuna commemorarono anche il martire francese, Giovanni Jaurès, pacifista convinto, ucciso da un fanatico nazionalista convinto della assoluta necessità di dichiarare guerra alla odiata Germania. Nel corso della giornata la sezione socialista, cogliendo l’occasione del comizio, aveva fatto murare in una parete della Camera del Lavoro una lapide con una epigrafe dettata dal deputato socialista, Fabrizio Maffi. L’idea era di darle la giusta collocazione facendola murare appena possibile in piazza. Non sappiamo se questo sia effettivamente avvenuto ma se così è stato probabilmente fu tolta sotto il regime fascista, dal fanatismo delle camicie nere.
Altezza di pensiero, pertinace vigoria di devozione alla causa degli oppressi, santità di martirio esaltino nel simbolo di Giovanni Jaurès l’implacabile orrore del popolo contro la guerra La Sezione Socialista Torrese a ricordo dell’assassinio compiuto il 31 luglio 1914.[12]
Segretario della sezione socialista era in quella fase, Ettore Fortuna, ma non siamo lontani dal vero se riteniamo che Diodato, pur non presente nella segreteria con Luigi Balzano e Giovanni Tagliamonte, fu comunque un autorevole ed ascoltato esponente del partito per la sua ormai vasta esperienza nel campo sindacale, stimato leader degli operai delle Ferriere. Fu sicuramente presente al pubblico comizio per la conquista delle otto ore del 14 febbraio 1919 nel Politeama Corelli, dove, tra l’altro si discusse delle rivendicazioni dei mutilati, feriti e reduci di guerra e della scottante questione degli affitti di casa, sempre più cari e insostenibili. Nella stessa giornata si era tenuta una riunione dei metallurgici delle Ferriere con Luigi Cipriani e Rodolfo Serpi, un cagliaritano trasferitosi da tempo a Torre Annunziata e prossimo consigliere provinciale socialista, mettendo in evidenza la bella vittoria dei lavoratori capaci di far riassumere una operaia ingiustamente licenziata.[13]
La promozione a Segretario Generale regionale dei siderurgici del suo amico e compagno di lavoro, Luigi Cipriani, la cui statura di dirigente era pienamente emersa con il famoso sciopero delle Ferriere del 1912/13, gli aveva ormai offerto lo spazio necessario per affermarsi nel campo sindacale ed essere presente a tutte le manifestazioni, sindacali e politiche, che si tennero nel primo dopoguerra e tra queste la grande manifestazione tenutasi nel Teatro San Ferdinando a Napoli il 23 febbraio 1919 per commemorare i due socialisti, il tedesco, Karl Liebknecht e la polacca Rosa Luxemburg, entrambi arrestati, torturati e uccisi il 15 gennaio 1919 dai militari della Freikorps. Non fu tra gli oratori, dovendo lasciare lo spazio a Gino Alfani e Amedeo Bordiga, ma era sicuramente presente quale rappresentante della lega delle Ferriere del Vesuvio. Finito il comizio si tentò di fare un corteo, andando verso il centro della città, ma la strada fu sbarrata da militari e carabinieri e finì in parapiglia, provocando diversi feriti e contusi. Nei mesi successivi fu impegnato negli scioperi che interessarono l’intera categoria dei siderurgici e in particolare quelli della Campania, per ottenere miglioramenti economici e normativi, con comizi e manifestazioni cui parteciparono spesso lo stesso leader nazionale della Fiom, Bruno Buozzi affiancato dagli instancabili Cipriani e Serpi, così come non mancarono scioperi contro licenziamenti ritenuti illegittimi.
Quando il 30 agosto 1920 lo stabilimento Romeo di Milano attuò la serrata, creando le premesse per l’occupazione delle fabbriche in tutta Italia, Napoli e le sue cittadelle industriali non rimasero a guardare: San Giovanni a Teduccio, Castellammare di Stabia, Torre Annunziata e Gragnano issarono le bandiere rosse facendole sventolare sulle maggiori fabbriche. Diodato Bertone fece la sua parte non tirandosi indietro, pur deplorando ogni azione violenta, e fu tra coloro che guidarono entusiasti l’occupazione delle Ferriere del Vesuvio nei primi giorni di settembre, con lo sventolio delle bandiere rosse, sognando l’avvento dei Soviet.
La lotta dei metalmeccanici e dei siderurgici di tutta Italia, poi sfociata nella occupazione delle fabbriche, fu spiegata dallo stesso Bertone il 30 agosto in Piazza Ferrovia. Su iniziativa della sezione locale della Fiom, composta in gran parte da lavoratori delle Ferriere del Vesuvio, si era pensato di illustrare alle diverse categorie di lavoratori e all’intera cittadinanza le ragioni della loro agitazione, le stesse che stavano infiammando l’Italia intera e che per molti rappresentava l’anticamera della rivoluzione. Ad aprire il comizio fu lo stesso Bertone, seguito dal compagno di fabbrica, il sardo Rodolfo Serpi e da Gino Alfani a nome della Camera del Lavoro. Stranamente non vi furono provocazioni poliziesche e la manifestazione si sciolse senza nessun incidente.
Lo stabilimento sarà infine liberato dagli operai il 28 di quello stesso mese, quando tutti gli operai uscirono in corteo, accompagnati dalle diverse leghe cittadine e da rappresentanze delle sezioni socialiste dei comuni del circondario, così come era stato disposto da una circolare diramata della Confederazione Generale del Lavoro e fatta propria dalla Fiom regionale. Tra lo sventolio delle bandiere rosse e da musiche rivoluzionarie, il lungo corteo raggiunse Piazza Ferrovia dove si tenne il comizio con diversi oratori, probabilmente a prendere la parola fu, oltre il consigliere provinciale, Matteo Palumbo Schiavone, lo stesso Bertone, seppure non se ne fa menzione nell’articolo riportato dal quotidiano socialista. Un mese dopo alle amministrative del 20 ottobre il partito socialista, confermando la vittoria del 1915 – seppure non riconosciuta dal Partito Socialista Ufficiale perché composta da socialisti dissidenti che aderirono al cosiddetto blocco progressista (composto da socialisti fuoriusciti dal partito, repubblicani, radicali e democratici) e per questo espulsi – vincerà le elezioni eleggendo Gino Alfani sindaco della cittadina oplontina. Lo stesso accadrà nella vicina Castellammare di Stabia e in altri duemila comuni d’Italia, ma in Campania saranno le uniche due città ad innalzare il vessillo rosso della vittoria socialista. Il sogno della rivoluzione sembrava essere a portata di mano, ma tale, purtroppo, rimase, presto schiantato dalla violenza fascista.
Come nasce e si concretizza la morte di Bertone
Così come si approssimava la fine del sindacalista Bertone, vittima della violenza che in tutto il Paese si stava abbattendo, quale furiosa reazione borghese al biennio rosso e alla grande paura esercitata dalla rivoluzione russa, consentendo l’avvento al potere di Benito Mussolini e il conseguente instaurarsi del regime fascista. Da mesi in tutta Italia avvenivano assassinii di militanti di sinistra, con Camere del Lavoro, Case del Popolo, sezioni socialiste e sedi di giornali di sinistra, assaltate, devastate e bruciate. Alla Camera dei deputati si sprecavano le interrogazioni dove si denunciavano, in particolare al Nord, bande armate che di notte penetravano nelle case di militanti e dirigenti sindacali e politici del Psi e del Pcd’I per sequestrarli e assassinarli, spesso con la silenziosa complicità delle forze dell’ordine e di apparati deviati dello Stato. Denuncerà, per esempio, il 10 marzo 1921 Giacomo Matteotti – a sua volta oggetto, come altri deputati, di minacce e pesanti intimidazioni da parte di squadracce fasciste, prima del suo efferato assassinio il 10 giugno 1924 – in una drammatica interrogazione, in cui ricostruiva una serie di brutali omicidi a danno di contadini e militanti di sinistra nell’assordante silenzio dei preposti all’ordine pubblico.
Nel Sud la situazione non era meno tragica di quanto accadeva nel resto d’Italia, con particolare drammaticità in Emilia Romagna e in Toscana, specie in Puglia e in Campania con numerosi morti e feriti e continui, violenti scontri tra le opposte fazioni. A Torre i primi incidenti risalgono al 17 maggio 1920 quando otto ragazzi, aiutanti pastai, mentre cantavano con chitarra e mandolino, Bandiera rossa – tradizionale e antica canzone popolare del movimento operaio italiano fin dalla seconda metà dell’800 – furono aggrediti da tre facinorosi, con uniformi da carabinieri, bastonandoli a sangue, arrivando a sparare alle spalle di quanti, impauriti, provarono a scappare. Uno dei ragazzi fu arrestato, picchiato e poi rilasciato. Erano la prime avvisaglie del mutato clima nazionale avverso all’avanzata clamorosa del Partito Socialista e alla forza sempre più dirompente della Confederazione Generale del Lavoro i cui frutti si vedevano nell’espansione degli scioperi rivendicativi e alle sempre più numerose conquiste sindacali, sia a livello aziendale, sia a livello contrattuale. La violenza esplose poi inarrestabile all’indomani della vittoria socialista del 31 ottobre quando il neo sindaco, Gino Alfani, sull’onda dell’entusiastica vittoria fece togliere il quadro del Re dalla sala del consiglio, sostituendolo con gli emblemi dei Soviet. L’azzardo provocò tumulti, risse e spari tra nazionalisti e socialisti perfino sul principio se sull’edificio comunale dovesse sventolare la bandiera rossa oppure il tricolore. Le dure proteste cessarono, pur tra mille mugugni di militanti recalcitranti, soltanto quando arrivò il provvedimento del Prefetto con l’ordine di rimettere al loro posto, nella Sala del consiglio comunale, i quadri del sovrano, Vittorio Emanuele III.
Nella città dell’Arte Bianca, la scissione comunista non aveva arrecato grandi defezioni, grazie soprattutto alla decisione di Gino Alfani di rimanere ancora nel Psi, la stessa scelta di Diodato Bertone, rimasto fedele ai suoi antichi ideali. Lo vediamo anzi entusiasta militante e capace dirigente moltiplicare i suoi sforzi, lavorando per aumentare i consensi al partito fondato da Filippo Turati. Non a caso negli ultimi tempi la sezione socialista aveva straordinariamente ingrossato le fila dei propri aderenti, superando i mille tesserati. La sua nuova sede era in via del Popolo, Palazzo Balsamo, in un vasto e ben messo locale, come recitava un puntuale rapporto della Prefettura di Napoli al Ministero dell’Interno, ricordando pure la forza della Camera del Lavoro con i suoi oltre seimila iscritti, dimostrando di essere, almeno in apparenza, se non di fatto, la maggioranza della popolazione locale.[14] Intanto, mentre il fuoco divampava nel Paese intero e nella stessa Torre si vivevano settimane difficili, Diodato, pur non venendo meno ai suoi impegni di dirigente sindacale era in quelle prime giornate di gennaio del 1921 impegnato nel matrimonio della sua prima figlia, Emma, di 22 anni. Si sarebbe sposata il 22 gennaio con Domenico Bozzi. Un mese di gioia prima del tragico evento che gli avrebbe stroncato l’esistenza. In sua memoria Emma diede il suo nome, Diodato, al figlio nato il 14 maggio 1923.
Lieti eventi privati e drammatiche giornate politiche di un intero Paese, avvolto e travolto da una situazione prossima ad uno stato di guerra civile. Una guerra civile persa in partenza da socialisti e comunisti per la grave crisi della sinistra a seguito della scissione che, indubbiamente indebolì entrambe le formazioni politiche e per le troppe divisioni all’interno dei massimi gruppi dirigenti, avviandole inesorabilmente verso la loro Caporetto, verso la fine dell’Italia liberale.[15] Troppo tardi nasce il partito comunista e troppo settario per capire cosa stava veramente accadendo in Italia, cosa sarebbe successo in meno di due anni: dal sogno infranto della rivoluzione proletaria alla dittatura fascista. Settimane e mesi di continue provocazioni contro le quali militanti ed esponenti di sinistra non volgevano l’altra guancia, spesso rispondendo con le stesse armi, con la stessa tragica violenza. Episodi e fatti utili unicamente ad alimentare e rafforzare l’odio fra le opposte fazioni, ma il peggio per Torre Annunziata era dietro l’angolo, pronto a far esplodere una miccia già tragicamente accesa con due dolorosi episodi accaduti nella vicina Castellammare di Stabia, il primo nel luglio 1920, quando i due giovani fratelli Vanacore, Michele e Amedeo, operai della Cirio e dirigenti della Lega delle conserve alimentari furono ammazzati senza pietà, colpevoli di essersi distinti nelle furiose lotte di quella bollente estate senza fine, da una squadra di facinorosi al servizio del direttore generale dello stabilimento conserviero, tale Paolo Signorini. Seguirà lo sciopero generale cittadino, il funerale imponente, pagato dalla Camera del Lavoro, i discorsi di Oscar Gaeta e di Girolamo Lucarelli, Segretario della Federazione provinciale. [16] Due anni dopo, gli assassini, Luigi Aprea e Nicola De Felice, se la cavarono, rispettivamente con un’assoluzione per legittima difesa e con dieci anni di carcere, potendo usufruire della provocazione semplice e delle attenuanti del caso. Anticipando in questo modo quale sarebbe stata la scandalosa sentenza dell’omicidio di Bertone.[17] Ancora più grave il secondo episodio, quello relativo alla strage di Piazza Spartaco verificatosi il 20 gennaio 1921 con sei morti e cento feriti. Centosessantuno gli arrestati nelle ore successive, quindici quelli che andranno a processo, per essere poi assolti il 6 aprile 1922. All’attacco fascista, Torre Annunziata rispose generosamente proclamando lo sciopero generale di 24 ore.
Il conto alla rovescia finale della bomba ad orologeria per Torre Annunziata iniziò il 20 febbraio 1921, quando sul piroscafo Frisio, di proprietà delle Ferrovie dello Stato, fermo al molo Beverello di Napoli, si imbarcarono fascisti, ex combattenti, arditi ed ex legionari fiumani, provenienti dallo stesso capoluogo campano e da altre zone limitrofe, con l’obiettivo di raggiungere Torre Annunziata, dove si doveva inaugurare il Fascio di Combattimento. Una manifestazione di forza nell’unica città campana ancora saldamente nelle mani degli odiati socialisti e guidati dall’avversario più pericoloso per capacità ed intelligenza, leader indiscusso, inoltre della più formidabile forza operaia organizzata, la più agguerrita, forse, dell’intero Mezzogiorno.
La città operaia, già posta in stato d’assedio da carabinieri e gendarmi a causa del lungo sciopero dei mugnai e pastai, sfidava ancora una volta un padronato ormai fascistizzato e che nelle camice nere cercava l’ultima possibile definitiva rivincita. L’ultima pericolosa sfida sembrava essere accettata dalla parte avversa, pronta ad usare ogni arma, legale ed illegale e perentorio era arrivato l’ordine dal comando di sostituire gli scioperanti con manodopera fascista, operazione da eseguirsi con le buone oppure con le cattive, ristabilendo l’ordine e la disciplina pretesa dagli industriali locali, sperando in questo modo di piegare definitivamente la resistenza operaia grazie ai prezzolati in camicia nera, generosamente finanziati dagli industriali. Inutili le interrogazioni parlamentari dei deputati socialisti, ormai l’arroganza e la prepotenza la facevano da padrone e tre giorni dopo, il 23 febbraio, tra l’entusiasmo della borghesia locale, si apriva ufficialmente la sede del Fascio locale, cui aderirono gruppi di canaglie senza mestiere, giovani studenti, militari in congedo frustrati nelle loro aspettative e che trovarono occupazione nelle squadre d’assalto, sostenute da finanziamenti padronali con l’impegno primario di organizzare il crumiraggio, assaltare e bruciare sedi democratiche e bastonare dirigenti sindacali. [18]
Un anticipo di quello che sarebbe accaduto nelle ore successive si ebbe a Valle di Pompei, nei pressi degli scavi archeologici dove un nucleo dei fascisti della nuova sezione di Torre Annunziata si scontrò con una comitiva di socialisti, facendo volare bastonate e colpi di rivoltella, uno dei quali ferì, piuttosto gravemente il musicista, Vincenzo Russo, costretto a ricorrere alle cure dell’ospedale civico di Torre Annunziata. A queste condizioni non poteva non seguire la tragica notte di venerdì 25 febbraio, quando ci fu l’agguato mortale. Erano da poco passate le undici di sera quando Diodato Bertone rientrava a casa dal lavoro in compagnia di alcuni colleghi dell’Ilva, Nicola Cirillo e tale Pusino, stando al racconto dello storico locale, Eduardo Ferrone. In realtà gli accompagnatori di Bertone sono un gruppo più numeroso, almeno cinque, come meglio vedremo in seguito e se questi non fossero scappati a gambe levate forse Bertone avrebbe conosciuto un miglior futuro.
Lungo la via, Bertone ebbe come un presentimento, il sentore che poteva accadere qualcosa, visto l’ora tardi e le strade invase da fascisti in cerca di guai. Lo disse ai suoi compagni di lavoro, ma cosa poteva fare se non accelerare il passo e tornare il prima possibile a casa? Non gli fu concesso. All’improvviso nei pressi di via Roma, all’altezza della Trattoria Stabiese, furono affrontati da una squadraccia fascista uscita dalla vecchia taverna dove aveva mangiato e bevuto più del dovuto. Era un manipolo numeroso, almeno una dozzina, alcuni provenienti da Napoli, la maggior parte ragazzi fanatici imbevuti del verbo mussoliniano. Secondo alcune testimonianze i fascisti uscirono al suono delle sirene dell’Ilva che annunciavano la fine del turno di lavoro. Erano muniti di nodosi bastoni e aspettarono, a riprova di un vero e proprio agguato programmato e non frutto del caso, dell’incontro fortuito. I due malcapitati accompagnatori, secondo la versione del solito Ferrone, furono malmenati e costretti ad allontanarsi accompagnati da minacce di morte se un giorno avessero parlato con qualcuno di quanto stava accadendo. Contemporaneamente contro Diodato, vittima designata, forse per essersi esposto con l’occupazione della fabbrica, per il suo impegno nella ricostruzione della sezione socialista, per aver rifiutato la tessera del partito fascista, come tanti altri stavano cominciando a fare fiutando la direzione del vento politico, o chissà per quali altri misteriosi motivi, furono scaricati diversi colpi di pistola, ferendolo a morte, colpito alla fronte e al ventre. Il martire torrese non aveva ancora compiuto 54 anni! La moglie ne aveva solo 40 e gli sarebbe sopravvissuta per altri 44 anni, scomparendo il 3 maggio 1965 all’età di 84 anni.
Appena i fascisti si furono allontanati qualcuno caricò su una carrozzella di passaggio il ferito, trasportandolo al vicino civico ospedale. Secondo la versione dello storico locale, Eduardo Ferrone, purtroppo sbagliata come meglio vedremo in seguito, il gesto di umana pietà al soccorritore venne a costare qualche anno di carcere e costretto, quando uscì, a chiudersi nel più assoluto riserbo. A nessuno dei familiari fu permesso di avvicinarsi al moribondo. A raccogliere le sue ultime volontà fu una suora. Cosa disse non è dato sapere, sempre stando alla biografia di Ferrone, la suora mantenne il segreto per evitare ulteriori guai alla famiglia Bertone.[19] Ma anche questa versione non corrisponde al vero, almeno non alla verità emersa dagli atti processuali, come meglio vedremo nel capitolo successivo.
In realtà come meglio vedremo in seguito, tra il gruppo degli assassini e Bertone non vi fu nessun scontro a fuoco, ma solo un agguato nel quale al martire torrese non fu concessa nessuna possibilità di difendersi. Evidentemente le notizie fatte trapelare ai giornalisti dei vari organi di stampa furono volutamente errate, tese a dimostrare che il delitto fu conseguenza di una lite, di una rissa furibonda dove le colpe andavano condivise o comunque attenuate, oppure i giornalisti fecero semplicemente confusione con il primo scontro nel quale rimane ferito il fascista Domenico Russo, facendo tutt’uno. Giova ricordare che il Commissario di Pubblica Sicurezza di Torre Annunziata era il famigerato Aurelio De Rubertis, distintosi fin dal primo momento quale supino sostenitore del fascismo e dei suoi accoliti. Una ricostruzione sbagliata, non casualmente confusa, nella quale caddero anche, volutamente, i giudici per mitigare la condanna dei colpevoli, unendo in un solo processo la rissa e l’agguato come se fosse stato un unico episodio e come tale giudicato. Fortunatamente l’edizione centro meridionale del giornale socialista corresse il tiro, ricostruendo meglio i fatti come accaddero nella realtà, pur con evidenti errori, dovuti alla mancanza di testimoni in quelle prime ore successive al delitto. Ma di questo i giudici e la giuria, manipolati dal regime, non vollero tenere conto.
Il fattaccio che i fascisti di Torre Annunziata da tempo cercavano di provocare per giustificare in una maniera qualsiasi i denari che vengono loro forniti dalla borghesia nostra è finalmente accaduto. Visto che i nostri compagni non accettavano le infinite provocazioni, riconosciuto vano il tentativo di far dimettere l’amministrazione comunale socialista; constatato che la massa lavoratrice compatta si stringe intorno ai suoi dirigenti, ascoltando l’invito alla massima calma, come se ne ebbe una prova lampante domenica scorsa, i fascisti hanno capito che bisognava cambiare metodo. L’assalto frontale non poteva assolutamente riuscire. La grande parata sarebbe non solo caduta nel vuoto ma i nuovi tutori dell’ordine avrebbero avuto la peggio e allora hanno pensato di ricorrere all’imboscata, all’incidente e che poi doveva provocare più luttuosi avvenimenti. Così è avvenuto.
Gli operai del turno serale delle Ferriere del Vesuvio, usciti ieri sera dalle officine verso mezzanotte, si avviarono in gruppo per via del Popolo quando sono stati aggrediti da numerosi fascisti che hanno sparato numerosi colpi di rivoltella e di pistole automatiche e perfino di vetterly, uccidendo l’operaio di 57 anni, Diodato Bertone, che lascia nove figli e la moglie e ferendo al piede il diciottenne Emilio Volini. Solo quando i fascisti si erano dileguati è intervenuta la forza pubblica, la quale ha arrestato alcuni operai, fra i quali il ferito. Stamane poi, la polizia ha operato infinite perquisizioni ed eseguito altri arresti dei più noti nostri compagni. In tutti gli stabilimenti è stato completamente sospeso il lavoro. Si prevede che domani i funerali dell’uomo riusciranno imponenti.[20]
Tornano qui le parole di Giacomo Matteotti, quando denuncia nelle aule del Parlamento l’omertà delle forze di polizia, la palese complicità di quanti erano chiamati a mantenere l’ordine pubblico, il silenzio delle istituzioni. Le città erano diventate terra di nessuno, dove le bande fasciste scorrazzavano a loro piacimento, trasformandole in un Far West, terrorizzando chiunque fosse militante della Camera del Lavoro, in odore di socialismo, peggio ancora se comunista, considerati veri e propri diavoli rossi. Un mese prima, il 20 gennaio, centinaia di fascisti avevano assaltato il municipio rosso di Castellammare di Stabia, provocando sei morti e la caduta dell’amministrazione guidata dal socialista, Pietro Carrese. Un massacro rimasto impunito. Sarebbe poi toccato a Gino Alfani dimettersi, il 10 ottobre 1922, mentre la Camera del Lavoro veniva devastata e distrutta il successivo 13 dicembre.
Dopo la marcia su Roma e il relativo Colpo di Stato del 28 ottobre, favorito dallo stesso Re con la nomina a Presidente del Consiglio di Benito Mussolini, iniziarono, senza più necessità di fingere di nascondersi, le intimidazioni di varia natura, cominciando dalle perquisizioni nelle case dei maggiori esponenti politici e sindacali, da quella di Gino Alfani a Ettore Fortuna, applicato ferroviario ed ex consigliere comunale, segretario della sezione comunista sorta all’indomani della scissione di Livorno, da Domenico Estrano, ragioniere e comunista rivoluzionario al bracciante Filippo Russo.
Le diverse versioni riportate dai quotidiani napoletani, seppure simili non concordano con quella ricostruita da Ferrone frutto, a sua volta, di improbabili testimonianze oculari, poi tramandatesi, ma taciuta per anni per evitare rappresaglie, dopo essere stati minacciati, o forse soltanto ricordi sbiaditi, modificati dal tempo. Verità nascoste, parzialmente ricostruite, falsamente ricordate, opportunisticamente rimescolate e tali rimarranno per sempre. Venti anni di regime del fascista Mussolini, durante i quali migliaia di oppositori furono uccisi, malmenati, condannati al confino politico, incarcerati, diffidati, ammoniti, perseguitati, tra questi molti di Torre Annunziata, non poteva non lasciare il segno e piegare la maggioranza della cittadinanza, obbligandola a rinchiudersi nelle case, a rinnegare se stessi, a lasciarla cercando pace e fortuna altrove, o più semplicemente per farsi dimenticare, come fecero Beniamino Romano, Ettore Fortuna, Luigi Cipriani, Rocco Caraviello e chissà quanti altri. Una verità che solo oggi emerge leggendo, per la prima volta, le carte processuali e le testimonianze scritte dai protagonisti di quei giorno oscuri.
Il Congresso di Livorno del gennaio 1921, con la scissione comunista, la morte di Bertone e l’inarrestabile violenza fascista, gettarono nello scompiglio e nella confusione più totale la sezione socialista, fin quasi a farla scomparire. Solo lentamente, con grande fatica, i socialisti riuscirono a riprendersi, ricostruendo l’organizzazione, sia per quanto riguardava gli organismi nella Camera del Lavoro, sia la stessa sezione, eleggendo segretario Michele Proverbio, in sostituzione di Ettore Fortuna passato con i comunisti, mentre intorno i fascisti si muovevano ogni giorno sempre più sicuri della loro impunità, terrorizzando chiunque non la pensasse come loro. Riportiamo, a proposito di verità manipolate, una versione scritta dal fascista Giorgio Alberto Chiurco, nel suo volume, Storia della rivoluzione fascista, pubblicata nel 1929:
25 febbraio. A Torre Annunziata avendo un socialista esploso un colpo contro gli avversari fascisti, ferendone uno, si ha un conflitto. Più tardi, nuovamente nella stessa via del Popolo avvengono altri incidenti con scambio di revolverate ed in uno di questi si aveva un morto ed un ferito al piede, il fascista Volini, di Napoli. La mattina del 26 è proclamato lo sciopero, giungono di rinforzo da Napoli molti carabinieri e 200 guardie regie.[21]
Il fascista Volini era Emilio Volini, fu Giuseppe, un ragazzo di 18 anni originario di Potenza, la cui ferita al piede fu ritenuta guaribile in 52 giorni, uno dei 22 incriminati, ma in ultimo tutti assolti. Secondo il quotidiano Roma, nella cronaca ricostruita dal giornalista Petitto, cronista del quotidiano napoletano da oltre venti anni, Volini era un militante del Partito socialista rimasto ferito nello scontro con i fascisti.
Una notizia ulteriore viene riportata dal quotidiano, Il Mezzogiorno, d’ispirazione fascista, descrivendo un secondo scontro tra il primo in cui rimane ferito Domenico Russo e quello tragico, in cui rimane vittima designata Diodato Bertone. Il primo scontro a fuoco era da poco terminato che nella stessa strada, in via Vittorio Emanuele, venne aggredito da due fascisti il socialista Luigi Pagani, di anni 40. Contro di lui alcuni colpi di rivoltella, fortunatamente andati tutti a vuoto. Colpi sparati, probabilmente, per vendicarsi del loro camerata rimasto ferito, Domenico Russo. Questi, dopo il ferimento alla fronte, si era rifugiato in una casa per ricevere le prime cure e per sottrarsi ad un pericoloso interrogatorio da parte delle forze dell’ordine, ma fu ugualmente trovato dagli agenti e portato in ospedale.[22]
I funerali furono celebrati nel pomeriggio di sabato, 26 febbraio, alle 17 e il corteo fu imponente con la partecipazione delle rappresentanze socialiste dei comuni del circondario con le rispettive bandiere rosse e tutte le Leghe con i propri labari ricamati con filo d’oro. Il convoglio funebre, preceduto dalle guardie municipali, fu seguito, secondo il cronista, dal giovane figlio di Diodato, sicuramente Leonida, il più grande dei tre maschi, appena 17enne e dalle intere maestranze delle Ferriere del Vesuvio. Alla balconata del Municipio sventolò la bandiera rossa, tristemente a mezz’asta, mentre lungo le vie furono affisse numerose strisce portanti la scritta, lutto proletario. Il sindaco, Gino Alfani, preoccupatissimo per quanto poteva accadere, aveva fatto affiggere un manifesto in cui, da un lato stigmatizzava il delitto e nel contempo invitava gli operai alla calma ed alla concordia cittadina. Sul feretro parlarono il sindaco, il consigliere provinciale eletto nel collegio di Castellammare, Rodolfo Serpi, a sua volta operaio delle Ferriere del Vesuvio e Ettore Fortuna. Durante il passaggio del corteo tutte le botteghe e i magazzini abbassarono le saracinesche in segno di lutto. Tutti gli sbocchi delle vie erano custoditi da folti cordoni di carabinieri e guardie regie comandati da funzionari di Pubblica Sicurezza, ma fortunatamente, così come aveva chiesto il sindaco, non si ebbero incidenti.[23]
Seguiamo da vicino i funerali di Bertone nella descrizione del cronista del Roma, in un articolo non firmato, come era d’uso all’epoca, ma probabilmente firmato da Petitto, corrispondente locale del giornale:
Le esequie civili del compianto metallurgico, Diodato Bertone, ucciso ieri notte nel conflitto, sono riuscite oltremodo imponenti. Alle cantonate delle vie sono state attaccate delle strisce con la scritta, <lutto proletario>.
Il sindaco, avvocato Alfani, ha fatto affiggere il seguente manifesto: Questa notte gli operai del secondo turno di lavoro delle Ferriere, mentre tornavano pacificamente alle loro case, sono stati vigliaccamente aggrediti da un gruppo di arditi e di fascisti armati. Diodato Bertone, il cittadino integerrimo, l’operaio laborioso, il povero padre di famiglia, è caduto ucciso da mano assassina!
L’esecrazione per questo feroce delitto è sgorgata unanime dal petto di tutti gli uomini onesti. L’amministrazione comunale nel raccomandare nuovamente la calma dignitosa degli scorsi giorni, vi invita a stringervi intorno ad essa per domandare ad alta voce il ripristino dell’imperio della legge.
Dove i cittadini debbono provvedere da sé alla difesa personale, ogni principio di autorità è finito! Questo stato di fatto, indegno di un paese civile, per volontà della cittadinanza deve cessare. È necessario che la vita dei cittadini venga tutelata, che sia evitato ulteriore spargimento di sangue, che sia evitata la guerra civile. Con l’animo rattristato per la selvaggia ferocia con la quale si vuole terrorizzare la cittadinanza, noi vi invitiamo ad armarvi dello stesso dignitoso coraggio di cui avete dato prova nei giorni passati e chiedere che le autorità politiche facciano sgomberare senza indugio il paese dai turbatori dell’ordine pubblico.
In tutta la giornata è stato un continuo pellegrinaggio alla cella mortuaria dell’ospedale civico. E tutti hanno sentito vivo il cordoglio per la immatura, tragica fine di un padre di famiglia e di un operaio laborioso ed onesto.
Alle 16,30 si è formato l’imponente corteo preceduto da un plotone di guardie municipali. La bara, portata a spalle dai compagni operai, era coperta dalla bandiera rossa dei metallurgici. Seguivano la bara le corone inviate dalle singole leghe, portate a mano. Si notavano quelle della famiglia, dei cognati, della direzione delle Ferriere, del comune socialista, della associazione impiegati delle Ferriere, della Lega metallurgici, della Camera del Lavoro, della Lega mugnai, della Fabbrica d’Armi, della marittima torresi, della Lega pastai lunghi, della Lega meccanici e falegnami, della Lega pastai minuti. Il corteo era seguito da un innumerevole stuolo di iscritti alle diverse leghe. Si notava anche la Sezione Repubblicana con bandiera. Al passaggio del corteo si chiudevano, in segno di lutto, tutte le botteghe. Il corteo ha attraversato via del Popolo, via Garibaldi. In Piazza Cesare Battisti è sostato e dai balconi della cooperativa proletaria hanno parlato con profonda commozione i compagni di fede, Fortuna, Serpi ed il Segretario Generale della Camera del Lavoro, avvocato Alfani.
L’ordine pubblico è stato mantenuto dal commissario di P.S., De Rubertis e dai vice commissari, Gaeta, Ruggiero e Ferrante, dal capitano dei carabinieri, Romano e dal tenente delle guardie regie, Caffara, con i loro dipendenti. Sono giunti da Napoli il procuratore del Re, Miliucci e il giudice istruttore, Pacella per assodare le responsabilità.[24]
Senza risposta rimase l’interrogazione parlamentare del deputato socialista, Alfredo Sandulli, richiesta tre giorni dopo il tragico evento, il 28 febbraio. Nonostante tutto, il successivo 1° maggio 1921, pur nella violenza fascista, nella paura, nell’angoscia dei mille agguati e dei troppi assassinii, fu in qualche modo festeggiato in tutte le città italiane. Nella vicina Castellammare, la strage fascista, la caduta della Giunta di sinistra, gli arresti dei maggiori dirigenti non piegò il popolo della sinistra e fu festa di piazza, invece a Torre Annunziata fu impedita dalle forze dell’ordine. Facile capire i motivi, le ragioni. Lo spettro di Bertone era nell’aria, gli animi erano ancora troppo agitati e la voglia di vendetta non mancava. Il nome di Bertone continuerà ad essere usato negli anni successivi dai fascisti torresi come monito nei confronti di quanti si ostinavano a non piegarsi al nuovo regime, non ancora trasformato in aperta dittatura. In particolare nelle elezioni politiche del 6 aprile 1924, quando candidati nel Partito comunista vi erano due torresi, Gino Alfani e Domenico Estrano. Minacce e violenze continuarono per giorni e ad ogni elettore di sinistra, riconosciuto come tale, la terribile frase:
– Attenzione a quello che fate se non volete fare la fine di Bertone!
Una domanda sorge spontanea: perché proprio Diodato Bertone? Seppure dirigente affermato e riconosciuto come tale, sicuramente non era tra i più rappresentativi del Movimento Operaio di Torre Annunziata in quella fase drammatica della vita politica e sociale della cittadina ai piedi del Vesuvio. Diodato era un uomo pacifico, di buona indole, gran lavoratore, impegnato più a guadagnarsi il pane per sfamare la sua numerosa famiglia che a interessarsi di politica attiva, quanto meno non rientrava tra quelli facili a farsi dei nemici per l’irruenza del carattere, la violenza verbale o atteggiamenti particolarmente ostili. Per la stessa prefettura e gendarmeria locale non aveva mai rappresentato un reale pericolo per le istituzioni, non a caso il suo nome non è mai entrato nello schedario della polizia politica, non è mai stato pedinato, multato, arrestato, non ha mai ricoperto cariche politiche o sindacali. E allora perché è stato scelto e da chi? Se avessero voluto colpire un simbolo sarebbe stato più logico colpire il suo massimo rappresentante, colui che riassumeva il potere politico e sindacale della sinistra a Torre Annunziata, l’emblema stessa della classe operaia da tredici anni: Gino Alfani. Il molisano nella sua vita aveva subito diversi attentati – l’ultimo in ordine di tempo, il 14 marzo 1918, quando fu aggredito e colpito con il coltello da un tale Aniello Scognamiglio al ritorno da un funerale, quello del militante socialista Giovanni Bernacchi – e ne era sempre uscito indenne, o quasi, aumentando di fatto la sua fama di leader incontrastato nell’intera regione Campania e, ormai di fatto, un dirigente di caratura nazionale. Troppo importante per i congiurati locali? Troppo pericoloso colpirlo, col rischio di provocare una rivolta popolare dagli esiti imprevedibili? E allora si poteva colpire un dirigente come Ettore Fortuna, napoletano di nascita, ma residente a Torre Annunziata fin dal 1913, applicato della Ferrovia dello Stato, amico intimo di Alfani, segretario della sezione socialista in procinto di lasciare l’incarico per assumere quello di Segretario della nascente sezione comunista. Fortuna si era messo in mostra per le sue indubbie capacità di guida politica e in particolare negli ultimi anni aveva assunto sempre di più la guida del partito locale, fino ad essere eletto consigliere comunale nel 1920, candidato a Napoli, senza fortuna, nelle elezioni provinciali del 7 novembre di quello stesso anno ed infine delegato dalla sezione socialista al Congresso nazionale di Livorno del gennaio 1921 e candidato nelle liste del Partito comunista nelle successive elezioni politiche del 15 maggio, conquistando 3.871 preferenze, superando quelle di Gino Alfani, candidato del Psi, fermatosi a 2.733. Altro personaggio simbolo di Torre Annunziata era sicuramente il bracciante Filippo Russo (1881 – 1965), nel movimento operaio locale fin da ragazzo, figura di spicco della Camera del Lavoro, tra coloro che la fondarono nel 1901, poi diventato famoso per aver partecipato ai funerali di Vladimir Lenin, scomparso il 21 gennaio 1924. Altre importanti figure erano sicuramente il mugnaio Beniamino Romano, oppure Cataldo D’Oria, attivo militante e dirigente fin dal 1898, fautore della nascita della Camera del Lavoro nell’ormai lontano 1901. Senza dimenticare Luigi Cipriani, la stella nascente del movimento sindacale locale, operaio delle Ferriere, capace in breve tempo di assurgere a leader incontrastato dei metallurgici, Segretario della Lega Fiom ed infine dirigente regionale della stessa categoria. Forse faceva paura la sua stazza, alto com’era, di corporatura robusta, barba folta, voce potente, carattere violento. L’opposto di Bertone. E così la scelta era caduta su Diodato, il bersaglio più facile da colpire, il più innocuo. La sua morte avrebbe provocato scalpore, disorientato la sezione, lasciandola nel panico, gli operai avrebbero reagito, scioperando, partecipando in massa al suo funerale, ma nulla più, non ci sarebbe stata nessuna guerra civile, nessuna rivolta popolare, nessuna violenta reazione. E così fu.
Secondo alcuni la condanna arrivò in seguito al suo rifiuto di accettare la tessera fascista, tesi fragile e fin troppo poco realistica: Bertone era un sindacalista e un socialista troppo conosciuto, un leader ormai affermato per fargli una simile, indecente proposta, la sua stessa personalità era agli antipodi della marmaglia fascista accorsa a prendere la tessera del fascio, in primis il loro capo riconosciuto, il fanatico e violento, Francesco Saporito (1895 – 1945). Forse fu semplicemente il Caso o forse altro nella decisione di colpire un uomo buono. Gelosia, invidia, antipatia, forse aveva semplicemente pestato il piede a qualcuno, irritato una camicia nera, deriso un fascista di troppo in una delle tante, troppe sfide verbali di quelle settimane destinate ad arroventarsi sempre di più, passando dalle parole ai fatti. In alcuni casi il passo è breve, troppo breve se chi segue ideologie di morte è di per sé portatore di violenza insita nel suo carattere, nella sua disturbata personalità. Chi per primo lo colpì senza pietà, a freddo, col bastone, Luigi Fragna, lo additò ai camerati come il capo dei socialisti rivoluzionari, uno da ammazzare per raggiungere lo scopo prefissato. Non dimentichiamo che gli industriali, come gli agrari, i grandi latifondisti terrieri, dalla Puglia alla Valle Padana, avevano assoldato in tutta Italia la peggiore gioventù, avanzi di galera e fanatici della violenza e Torre non fu da meno. Basti ricordare le parole di Gino Alfani scritte sul giornale, Il Comunista, del 28 ottobre 1922, denunciando che il fascio torrese era una autentica associazione di delinquenti i cui componenti avevano tutti pessimi precedenti penali, mazzieri pagati per intimidire, picchiare e, se necessario, uccidere. Come fecero!
In ultima analisi serviva un capro espiatorio, la vittima sacrificale per arrivare alla fine anticipata dell’amministrazione comunale guidata da Alfani, alla chiusura della famigerata e ancora temibile nonostante tutto, Camera del Lavoro. In definitiva bisognava arrivare il prima possibile alla fine del movimento operaio organizzato, come già stava accadendo ed era accaduto in tante altre realtà. Ma non era facile e non lo fu, nonostante la profonda ferita inferta, il leone era debole ma non ancora morto ed ingaggiò una lotta senza quartiere contro gli industriali, i fascisti e il locale commissariato guidato dal famigerato Aurelio De Rubertis, asservito al padronato, senza pudore, mentre le pistole continuarono a sparare, gli uni contro gli altri, con intimidazioni, agguati a colpi di bastone, aggressioni nella case, perquisizioni improvvisate, arresti immotivati, attentati e perfino bombe. Senza risposte rimanevano le interrogazioni dei parlamentari socialisti, Arnaldo Lucci e Corso Bovio, mentre non mancarono le defezioni, alcune importanti, come quella di Luigi Sansone, antico capo-lega dei contadini passato sul fronte opposto, con il Fascio. Lo stesso aveva fatto Luciano Palmieri. Nel suo caso aspettò il 1922 per abbandonare le sue idee avanzate, mostrandosi favorevole alle direttive del regime, per il quale cominciò a nutrire simpatia fino a far parte del sindacato fascista dei dazieri. La morte lo coglierà il 7 settembre 1928. Così come aveva fatto fin dal primo momento Fedele Venturini, il socialista più pericoloso di Torre Annunziata nel lontano 1903, il più ardito, per diventare, infine, con il fascismo, il Segretario dei sindacati orchestrali, sorto per sua stessa iniziativa.
Un martirio senza fine. Non mancarono i ferimenti, neanche tra i fascisti, tra cui quello del Segretario del fascio, il tenente degli arditi, Ferdinando Ferrara. L’inizio della fine per la democrazia a Torre Annunziata cominciata con l’assassinio di Bertone, continuò il 10 ottobre 1922, quando il sindaco socialista, Gino Alfani fu obbligato a dare le dimissioni dalla carica di primo cittadino, presentandosi dal Prefetto seguito dall’intera Giunta comunale, protestando inutilmente contro le numerose violenze fasciste dei giorni precedenti. Due mesi dopo, al comando di Francesco Saporito, squadre fasciste occuparono la Camera del Lavoro mettendola a soqquadro e buttando sulla strada bandiere, registri e schedari, dando fuoco a tutto. La colpa grave era di aver continuato a mantenere riunioni e assemblee operaie nonostante le numerose diffide. Ancora il 19 Ottobre, alla vigilia della famigerata Marcia su Roma, il corrispondente locale del giornale, Il Comunista, il giovane mugnaio, Antonio Embrice, fu affrontato in piazza da un manipolo di fascisti a preso a bastonate, ferendolo al capo, reo di essere l’autore di un articolo contro il fascio torrese. E ancora nel 1923, mai paghi, una sera di febbraio, alcune pattuglie di carabinieri e fascisti perquisirono le case dei più noti antifascisti, tra cui, immancabilmente, quelle di Gino Alfani, Ettore Fortuna, Domenico Estrano, Michele Tribaldi e di Filippo Gorga, alla ricerca di improbabili documenti compromettenti, senza trovare quello che non c’era, con l’unico scopo di intimidire chi ancora non si arrendeva all’evidenza della vittoria fascista.
La paura serpeggiava, le rappresaglie non mancarono, né prima e né dopo, ma questo non impedì, il 6 aprile 1924, nel segreto delle urne, la grande vittoria di Gino Alfani, trionfante con 4.056 voti. Domenico Estrano si difese con 1.305 preferenze. Alfani fu l’unico comunista eletto in Campania sui quindici a livello nazionale, provocando non pochi malumori tra i compagni di partito al punto da essere messo sotto inchiesta, ma ne uscì indenne. Naturalmente tra i vincitori di Torre Annunziata, con 16.882 voti non poteva mancare l’avvocato Pelagio Rossi, candidato nelle liste del Fascio, già eletto diverse volte sindaco, l’ultima nel 1923, grazie alle prepotenze fasciste, dopo aver spodestato con la forza, l’ex segretario della Camera del Lavoro. Pelagio Rossi era, per carattere e personalità, uomo profondamente lontano dalla prepotenza insita nel fascismo, ma questo non gli impedì di mettersi al suo servizio. Non a caso dopo la fine della legislatura tornò a Torre per essere nominato Podestà. Nel Paese trionfava il fascismo con oltre quattro milioni di voti, mentre le varie liste di sinistra, nonostante tutte le avversità, riuscirono comunque a conquistare oltre un milione di preferenze. Aveva vinto la sopraffazione dei violenti!
Tra quanti provarono a non piegarsi, a rimanere fedele ai propri ideali, pagando con il confino politico, per uno o più anni, la militanza antifascista, ricordiamo: Gino Alfani, Alfredo Aprile, Pasquale Esposito Alfonso Frappola, Giuseppe Gallo, Domenico Garofalo, Mariano Guerriero, Raffaele Monaco, Salvatore Montuori, Catello Pagano, Francesco Papa, Gennaro Parisi e Filippo Russo.[25] Tra quanti non conobbero il confino o il carcere, ma furono continuamente sorvegliati, ricordiamo diversi consiglieri comunali e assessori della Giunta socialcomunista guidata da Gino Alfani tra il 1920 e il 1923: Giovanni Tagliamonte, Salvatore Montuori, Vincenzo Afflitto ed altri che furono nella Camera del Lavoro o dirigenti di partito come Luigi De Santis, Attilio Millo, Rocco Troncato ed il martire, Rocco Caraviello (1906 – 1944), partigiano a Firenze, dove si era trasferito per lavoro, ucciso dai fascisti, con la moglie, Maria Penna (1905 – 1944), ed il cugino, Bartolomeo Caraviello (1914 – 1944). Nel giugno 1972, il Partito Comunista di Firenze intitolò a Rocco una sezione nella zona di Rifredi, mentre Torre Annunziata gli dedicò una piccola piazza, poco più di uno slargo. In realtà pochi sanno che già nel 1946 esisteva a Firenze una cellula di una sezione Pci a lui intitolata. Da molti anni a Torre è presente una sezione dell’Anpi dedicata ai coniugi Caraviello. L’amministrazione comunale di Torre, così come aveva fatto per Bertone, assegnò ai tre coraggiosi partigiani la medaglia d’oro alla memoria nel trentesimo anniversario della Resistenza, nel 1975
Il processo
Il processo aperto a carico dei ventidue imputati fu poco più di una farsa, come dimostrò la sentenza della Corte Straordinaria di Assise di Napoli emessa il 22 marzo 1923, con il Duce già al Governo dopo la nefasta marcia su Roma del 28 ottobre 1922 e in grado di manipolare e piegare, con la violenza delle sue squadracce, uomini e istituzioni. L’omicidio, contro ogni elementare logica, ignorando la evidente realtà dei fatti, fu ritenuto conseguenza di una banale rissa finita casualmente in modo tragico e non frutto di un omicidio premeditato, una strategia pianificata a livello nazionale, come dimostrarono i numerosi assassinii di quei quei giorni feroci di vari dirigenti politici e sindacali in tutta Italia, basti ricordarne due per tutti, Spartaco Lavagnini, sindacalista comunista ucciso il 27 febbraio 1921 a Firenze, mentre il 25 settembre a Mola di Bari fu massacrato il giovane parlamentare socialista, Giuseppe Di Vagno, eletto in parlamento solo pochi mesi prima. Ma segnali premonitori non erano mancati, come avevano ampiamente dimostrato i sanguinosi assalti fascisti ai Municipi rossi di Castellammare di Stabia e di Bologna e in ultimo, ancora bollente, la domenica del 20, ancora quel maledetto febbraio 1921, un giorno festivo di violenza e di sangue in numerose città d’Italia, da Bari a Modena, da Reggio Emilia a Udine, da Matera a Milano, provocando quattro morti.[26] Altri sarebbero seguiti nelle completa indifferenza delle istituzioni e con la complicità degli apparati dello Stato, fino a stabilire l’ordine definitivo della dittatura, di cui quei magistrati erano l ‘emblema. Per la storia ricordiamo l’assassinio dell’operaio comunista di Resina, Paolo Scognamiglio, quello del quindicenne Riccardo Radame di Ponticelli, massacrato nel locale circolo socialista, a Torre del Greco muore il giovane operaio di una fabbrica di vetri, Giordano Pellegrino.
Nonostante questa lunga, interminabile scia di sangue, il quotidiano napoletano, Roma, l’antico portavoce dei repubblicani fin dal 1862, la cui bandiera aveva ormai ammainata, presentava i fascisti come persone pacifiche, dedite alla pace e all’ordine, qualche volta costrette a difendersi dalla violenta marmaglia socialcomunista. Così aveva fatto presentando l’inaugurazione, il 20 febbraio, del Fascio di Combattimento di Torre Annunziata.
I fascisti agiscono con la fede purissima del soldato che tutto dà e nulla chiede e che la nobile propaganda e l’alta missione dei fasci non va confusa con il traffico dei socialisti – disertori e traditori del Paese.[27]
I tre maggiori indiziati e accusati di omicidio volontario furono due napoletani, Luigi Fragna fu Raffaele di anni 47 e Carlo Peirce, fu Riccardo, di anni 40, mentre il terzo, Pasquale Russo di Luigi, 32enne era di Torre Annunziata, operaio iscritto alla Camera del Lavoro. Fragna, per la detenzione di porto d’arma da fuoco senza licenza fu condannato in prima istanza ad un mese di arresto, mentre il Peirce a 36 giorni da diminuire di un sesto per effetti del cumulo giuridico, inoltre il secondo ebbe ulteriori otto mesi per omessa denuncia delle armi, da diminuire per le attenuanti per la regola del cumulo. Condanne cancellate dalla Giuria in sede di Assise in quanto l’azione penale era da considerarsi estinta per effetti della sopravvenuta amnistia. Amnistia che coinvolse ventuno imputati tranne Carlo Peirce per i suoi trascorsi precedenti penali.
Rimaneva l’accusa più grave, l’omicidio volontario in persona di Bertone Diodato
commesso in correità fra loro nella rissa alla quale parteciparono i tre maggiori indiziati. Luigi Fragna fu condannato a tre anni, sei mesi e cinque giorni, mentre Carlo Peirce a tre anni e cinque giorni. Entrambi alla vigilanza speciale per la durata di un anno ciascuno, oltre al risarcimento del danno alla vedova Margherita Di Martino, costituitasi parte civile, e alle spese processuali. E Pasquale Russo? I giurati hanno emesso verdetto negativo per tutte le imputazioni a lui ascritte in rubrica, di conseguenza va deliberato, assolto e scarcerato.
Cerchiamo di andare per ordine.
La stessa notte dell’omicidio funzionari della P.S. avevano provveduto a perquisire le case di parecchi pregiudicati e sovversivi, procedendo al fermo di numerosi individui sospetti per identificare e arrestare i partecipanti alla presunta rissa e all’omicidio del povero Bertone. Non ci volle molto e ben presto in carcere finirono in quattordici. Non ci rimasero molto, dodici di loro uscirono poco dopo con ordinanza del giudice istruttore, Pacelli, a seguito della requisitoria del Procuratore del Re. Emilio Volino, Ernesto Scipione, Luigi Melillo, Filoteo Tenda, Antonio Fusino, Luigi Grazioso, Luigi Gagliardi, Raffaele Cirillo, Nunzio Angrisani, Luigi Raiola, Umberto Salzano e lo stesso Peirce furono rimessi in libertà in attesa del processo. In carcere rimasero i maggiori indiziati, Luigi Fragna e Pasquale Russo per i quali l’istruttoria non era ancora stata completata e ancora non era stato individuato chi, materialmente, avesse esploso il colpo di rivoltella omicida. In seguito gli accusati da processare divennero 22, unificando gli accusati di due distinti episodi e fuorviando in questo modo il processo, portandolo nella direzione voluta, dell’omicidio per rissa, trasformando l’omicidio volontario in colposo preterintenzionale, non casualmente in carcere rimasero in tre, Pasquale Russo, Luigi Fragna, noto poeta dialettale e Carlo Peirce, un ex capo stazione della Circumvesuviana, nuovamente arrestato dopo la deposizione del suo camerata, Fragna, che lo inchiodava alle sue responsabilità.
Luigi Fragna, artista comico, oltre che poeta dialettale, personaggio ambiguo, furbo e simulatore, era nato a Napoli il 20 novembre 1875. Aveva alle sue spalle una lunga sfilza di procedimenti penali, fin dal 1893, quando subì la prima condanna di tre mesi e 21 giorni di detenzione dalla Corte d’Assise di Napoli per sparo d’arma in rissa. Seguirono altre condanne, per truffa, per lesioni volontarie, per appropriazione indebita, per minacce e porto d’armi. Da anni si era trasferito definitivamente a Torre Annunziata, dove aveva trovato lavoro al punto da farvi nascere diversi della sua pur numerosa prole, tra moglie e successiva convivente. A Torre divenne un fascista della prima ora, partecipando a tutte le violenze effettuate nei confronti degli antifascisti per conquistare le ambite onorificenze di squadrista, marcia su Roma e sciarpa littorio, utili ad aumentare, profitti, influenza e potere nel partito di Mussolini. Diventato uno dei maggiori esponenti del fascismo locale, visse di elargizioni del Partito fascista di cui fu esattore e tra l’altro, coerentemente con il suo passato, accusato di essersi spesso appropriato degli oboli raccolti per il fascio.
Il processo mise in evidenza un altra verità che smentisce , ancora una volta, la ricostruzione fatta da Ferrone, laddove asserisce che a raccogliere il ferito fu un generoso, ignoto concittadino, portandolo caritatevolmente sul suo calesse fino all’ospedale, pagando poi a caro prezzo il suo altruistico gesto. In realtà quando Diodato Bertone rimase a terra, gravemente ferito, a raccoglierlo furono i carabinieri, arrivati nel frattempo sul luogo dell’agguato e questi, con l’aiuto di Pasquale Russo, che in quel momento si trovava a passare con il calesse (o finse di passare casualmente per crearsi un alibi), a sua volta reduce da una bettola, sollevarono il moribondo ed adagiandolo nella vettura lo trasportarono all’ospedale. E qui un secondo colpo di scena, con ennesima smentita del povero Ferrone. Interrogato da una suora, Bertone, forse in un momento di lucidità, o forse nel delirio, smentite come furono le sue parole in sede processuale dallo stesso Fragna, affermò che ad ucciderlo era stato chi lo aveva accompagnato in ospedale. Dopo di che spirò. Il Russo allora fu trattenuto in stato di fermo, mentre l’autorità di PS ed il maresciallo dei carabinieri procedevano ad altri numerosi arresti.
Durante il processo gli imputati cominciarono ad accusarsi a vicenda: Fragna pur ammettendo di aver fatto parte della rissa Una rissa, ricordiamolo ancora una volta, inesistente ma utile per ridurre la pena), negò di essere l’autore dell’omicidio ed accusò Peirce di aver sparato ed ucciso Bertone. Costui, invece, smentendo a sua volta il camerata, ammise di aver partecipato al banchetto ma di essersi allontanato subito dopo con alcuni operai e comunque prima della sparatoria. Inutilmente. La sezione di accusa rinviò i tre maggiori imputati alla 2° Corte d’Assise per rispondere di omicidio in correità tra loro nella rissa, presunta e smentita dalle testimonianze, alla quale parteciparono altri 20 individui, a loro volta rinviati al giudizio dei giurati per rispondere a piede libero di partecipazione nella rissa e porto di arma abusivo. Una rissa che nella realtà era avvenuta alcune ore prima, con altri protagonisti, mentre Bertone e compagni erano ancora al lavoro. Un fatto facilmente verificabile, se solo la Procura avesse veramente indagato, ma non lo fece, non volle farlo perché la tesi della rissa favoriva la difesa, ma soprattutto era comoda al fascismo per assolvere i suoi killer, escludendo a priori la finalità politica del delitto. A difendere Fragna fu l’avvocato Michele Lener, mentre Peirce si avvalse di ben due legali, Alfredo Palumbo e Ettore Epifania, altrettanto fece Pasquale Russo con gli avvocati Luigi Goglia e Gennaro Marciano (1863 – 1944), un napoletano, senatore di fresca nomina, già deputato di lungo corso e celebrato principe del foro, il più grosso tribuno che Napoli avesse mai avuto. Non di meno fecero i restanti imputati facendosi difendere, tra gli altri, dagli avvocati Mario Zanfagna, Pietro Santangelo e Giuseppe Benvenuto.[28] Se Pasquale Russo aveva mostrato di aver saputo scegliere da chi farsi difendere e lasciando capire che il Regime appena instaurato era al fianco degli accusati, La famiglia Bertone non fu da meno, avvalendosi degli avvocati socialisti messi a disposizione dal Partito, Arnaldo Lucci, Matteo Schiavone Palumbo e Nicola Colozza
A presiedere la Corte fu il giudice, Fortunato Cucurullo, giudice a latere, Michele Arcangelo Ferrante, mentre l’accusa fu rappresentata dal sostituto procuratore del re, Raffaele Ferrante. Quest’ultimo, dotato di buona eloquenza, nella sua arringa ripercorse le varie fasi delle indagine atti a dimostrare la colpevolezza degli imputati, Pierce e Fragna, complici nell’omicidio Bertone, mentre
Con eguale calore il cav. Ferrante ha chiesto l’assoluzione dell’imputato Russo, vittima di un equivoco e di un ragionamento poco imparziale di un commissario di PS. Ha chiesto infine un verdetto negativo anche per tutti gli altri imputati. La magnifica perorazione del pubblico accusatore ha riscosso un plauso generale e prima fra tutti si è congratulato il senatore Marciano.[29]
In seguito venne il turno di Nicola Colozza, avvocato difensore della famiglia Bertone, a sua volta fiero sostenitore della colpevolezza dei tre imputati, il cui omicidio fu, senza alcuna ombra di dubbio, premeditato. Ovviamente di parere opposto la versione fornita dal giovane Lener, invocando un verdetto negativo per il suo difeso, Luigi Fragna, altrettanto fece Ettore Epifania, difensore di Carlo Peirce, mentre gli altri avvocati, a seguito del ritiro dell’accusa da parte del Pubblico Ministero contro i loro difesi rinunciarono a prendere la parola. Le quattro ore impiegate dall’avvocato Ettore Epifania, e le argomentazioni utilizzate, provocarono la visibile irritazione del Pubblico Ministero, Raffaele Ferrante, senza ulteriori incidenti di percorsi. Infine toccò alla giuria e questi emisero verdetto negativo per tutti, tranne che per Fragna e Peirce, condannati, come si è detto, a tre anni e pochi mesi di carcere, assolvendo Pasquale Russo e tutti gli altri.
Tutti gli uomini sono eguali, ma alcuni sono più eguali degli altri, scriveva lo scrittore inglese George Orwell riferendosi agli animali della fattoria protagonisti del suo famoso romanzo, ricordando l’unico comandamento realmente operante nei regimi in cui Libertà e Giustizia sono vuote parole.[30]
Luigi Fragna lasciò il carcere di Viterbo, dove aveva scontato la sua lieve pena, il 1 marzo 1924, riprendendo immediatamente il suo posto nel partito fascista quale esattore del fascio di Torre Annunziata. Insaziabile, Fragna assillava la Federazione fascista con continue richieste di elargizioni per l’opera da lui prestata e, secondo lui, meritoria. Ma poiché il troppo stroppia, le sue indebite pressioni furono segnalate al commissariato locale che intervenne diffidandolo dal proseguire le sue molestie. Non contento, fece domanda alla 7° Sezione Penale della Corte d’Appello, presieduta da Nicola De Simone, per ottenere la riabilitazione dalle conseguenze giuridiche delle condanne riportate, risultanti dal suo certificato del Casellario. Chiedere e ottenere era tutt’uno per uno che si considerava potente, e infatti, il 20 giugno 1938 fu riabilitato, come lui desiderava.
Dell’altro imputato, Carlo Peirce, non abbiamo trovato nessuna notizia. Dal memoriale di Leonida Bertone apprendiamo che al 15 gennaio 1945 risultava deceduto.
La beffa. Ingiustizia è fatta!
La vita è una ruota che gira, e non sempre va nel verso da noi voluto e desiderato. Il fascismo che voleva ricreare per l’Italia le vestigia dell’impero romano, crollò sotto gli errori e la cecità del suo duce, sbagliando politica ed alleanze. Il secondo e più grave dei suoi errori fu la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 alla Francia e Gran Bretagna, gridata con enfasi oratoria dal balcone di Palazzo Venezia, quando il potente e pericoloso socio, suo ex allievo, Adolf Hitler, trionfava in Europa allargando i suoi confini senza grandi difficoltà, tanto forte e micidiale era l’armata invincibile del Terzo Reich. Benito si illuse di potersi sedere al tavolo dei vincitori con poche centinaia di morti ed invece bastò poco per capire come le forze armate italiane non erano in grado di poter reggere lo scontro, neppure contro la piccola Grecia. E fu la fine, anche se ci vollero tre anni di inauditi sacrifici, di centinaia di migliaia di morti innocenti, caduti sui campi di battaglia, dall’Africa all’Europa, fin nella steppa sterminata dell’Unione Sovietica. Una intera armata mandata al macello con armi e vestiario inadeguato. Il primo errore era stato quello di allearsi con la Germania di Hitler, un ometto dall’insignificante apparenza, che Mussolini pensava di poter facilmente controllare.
E venne il 25 luglio, la caduta del duce, l’arrivo delle Forze Armate Alleate, sbarcate in Sicilia ed in Campania, a Salerno, liberando l’Italia meridionale dall’ex alleato diventato feroce nemico, arrivando a Torre Annunziata in un giorno di fine settembre e a Napoli il 1 ottobre. Altri morti innocenti, uomini, donne, vecchi inermi e bambini, sterminati dai tedeschi in fuga, la guerra partigiana con l’eroismo delle Quattro Giornate, preceduti dagli scontri armati di Castellammare di Stabia, Scafati e Torre Annunziata, protagonisti antichi militanti di sinistra e giovani senza bandiera, pronti a dare la vita per liberare le nostre città dalla ferocia nazista.
Come neve al sole scomparvero le camice nere. Così come sotto il tallone mussoliniano gli italiani si erano dichiarati fascisti, gli stessi, sotto l’incalzare delle forze di occupazione anglo americane e le vittorie partigiane culminate con l’ingresso a Milano del 25 aprile 1945, si rivelarono tutti antifascisti, ma la gente non dimentica, non poteva dimenticare, specialmente in quelle prime settimane, in quei primi mesi quando le ferite erano ancora aperte e bruciavano come non mai. A Torre Annunziata, subito dopo la precipitosa ritirata delle truppe tedesche verso il nord alla fine di settembre del 1943, costrette ad abbandonare lo stesso capoluogo campano dopo le ormai leggendarie Quattro Giornate – dove non mancò il contributo armato di partigiani torresi come Alfonso Baldaro, Alcibiade e Leopardo Morano – si scatenò la caccia ai fascisti: manifestazioni di protesta ci furono contro l’avvocato, Francesco Gallo, Responsabile dell’Ufficio di Conciliazione, fino ad occupargli la sede il 13 gennaio 1944, costringendolo a dare le dimissioni dall’incarico, colpevole di aver ricoperto la carica di Podestà durante il regime fascista. Pur senza gravi conseguenze, furono aggrediti e malmenanti gli ex squadristi Nicola Autiero, Attilio Izzo e Pasquale Loffredo. Da pesanti intimidazioni non si salvavano neanche i giovani iscritti al neonato Comitato Monarchico, a loro volta aggrediti e malmenati.
Fra i più attivi militanti di sinistra, vi era un gruppo di giovani comunisti dissidenti guidati da Ferdinando Pagano, tra i quali si ricordano Vincenzo Pagano, Tobia Testa, Gennaro Fabbrocino, Pietro Nardella, Giovanni Palladino e Mario Caruso. Questi, in avversione al Pci di Palmiro Togliatti, arrivarono a manifestare pesantemente anche contro il comunista, Maurizio Valenzi (1909 – 2009), senatore e futuro sindaco di Napoli, venuto a Torre Annunziata per tenere un comizio al Teatro Moderno. Il 6 marzo successivo giovani comunisti aggredirono ex squadristi. Lo scoprì a sue spese, prima e più pesantemente degli altri, anche Luigi Fragna, senza avere neanche il tempo di rendersi conto che il vento era cambiato. Eppure avrebbe dovuto rendersi conto, tanto era odiato dalla popolazione per la settarietà, le intemperanze, gli abusi tipicamente fascisti da lui compiuti ai danni dei tanti che mal avevano sopportato il regime dittatoriale. Le truppe anglo americane erano appena entrate in Torre Annunziata che la ritorsione partì immediata e violenta da parte di alcuni militanti comunisti e socialisti, devastando e bruciandogli le suppellettili dell’abitazione, mentre un altro gruppo, composto da giovani comunisti torresi, pensò bene di farsi giustizia da solo, non credendo in quella borghese. I fatti dimostrarono che i ragazzi non avevano torto, non a caso l’unica giustizia conosciuta dal martire torrese fu quella messa in atto da loro, vendicandosi quando incontrarono Luigi Fragna in Piazza Cesaro. Lo assalirono e picchiarono a sangue con un bastone tanto da essere costretto a rimanere a letto per oltre trenta giorni. Per quel gruppo di giovani marxisti, in opposizione alle stesse direttive del Pci di Palmiro Togliatti – considerato alla stregua di un partito borghese – Diodato Bertone era da considerarsi il Matteotti di Torre Annunziata e andava vendicato ad ogni costo. E, a loro modo, così fu fatto.[31]
Ancora malconcio e dolorante, Fragna finalmente capì che per lui era finita l’avventura torrese e se ne scappò, trasferendosi a Napoli, presso l’abitazione del più giovane dei suoi sette figli, il trentenne Alessandro. Ma per lui le disavventure non erano finite. A chiedere giustizia era la famiglia Bertone, finalmente libera di alzare nuovamente la voce dopo ventidue anni di silenzio forzato e si muoveva anche la macchina del Comitato di Liberazione, avviando le dovute epurazioni, stilando le prime liste e i necessari processi contro i maggiori colpevoli del passato regime. Il primo decreto in tal senso si ebbe nel dicembre 1943 con la, Defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali, degli enti sottoposti a vigilanza o tutela dello Stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o d’interesse nazionale.
Dopo le bastonate e dopo aver perso la faccia, Fragna perse il posto di lavoro grazie al decreto in atto, ma ancora non era finita, anche la macchina giudiziaria si mise in moto riaprendo, a furor di popolo, quel processo chiuso il 22 marzo 1923 in così malo modo. La Procura generale del Regno presso la Corte d’Appello di Napoli in realtà non si perse in chiacchiere aprendo immediatamente il procedimento a suo carico, chiedendo di aprire le dovute indagini
Al fine di raccogliere elementi utili a stabilire se sulla decisione della Corte d’Assise di Napoli che aveva emesso la sentenza del 22 marzo 1923 avesse influito lo stato di morale coercizione determinato dal fascismo. Ciò per porre in grado questo Ufficio Generale di inoltrare eventualmente ricorso alla Suprema Corte di cassazione per la dichiarazione di giuridica inesistenza di quella sentenza.
A essere ascoltati per primi dal locale commissariato, nel gennaio 1944, furono gli antichi testimoni, tra cui il gestore della trattoria Stabiese, al Corso Vittorio Emanuele, Gennaro Cesariello Esposito:
Ricordo che la sera in cui avvenne l’omicidio dell’operaio Bertone Diodato vennero nel mio esercizio circa 12 persone che consumarono una cena, allontanandosi verso le 22,30. Fra essi conobbi Luigi Fragna, un capo stazione della ferrovia circumvesuviana a nome Peirce ed un altro che sentivo nominare nel cognome di Rizzo, vuolsi da Napoli.
I predetti pagarono le consumazioni, ognuno per la sua parte La mattina successiva appresi che nella notte il Bertone era stato ucciso e che fra gli autori dell’omicidio vi era il suddetto Fragna
Ma fondamentale fu la testimonianza di uno dei compagni dello stesso Bertone, presente quella sera, Angelo Giaccaglia, un calabrese di Reggio Calabria residente a Torre Annunziata e operaio delle Ferriere del Vesuvio, smontando tutto quanto è stato fino ad oggi scritto su quella famosa e tragica sera del 25 febbraio 1921. Una testimonianza resa nell’Ufficio della Pubblica sicurezza l’11 gennaio 1945:
Innanzi a noi sottoscritti funzionari di P.S. È presente il nominato Angelo Giaccaglia (…) qui abitante in via Montenegro 2, operaio delle Ferriere del Vesuvio, il quale opportunamente interrogato dichiara quanto appresso:
La sera del 25 febbraio 1921, smontati di servizio dal locale stabilimento della Ferriera Ilva, io, Conato Alfredo, D’Avino Alfonso e Bertone Diodato, ci dirigevamo alle nostre abitazioni attraversando via Castello e via Avvenire e cammin facendo discutevamo di politica. Il Bertone ebbe anche a richiamarci facendo presente che data l’ora tarda, cioè verso le 23, 30 potevamo incontrare dei fascisti ed avere qualche incidente con loro. Difatti giunti all’angolo del Corso Garibaldi, trovammo fermi in quel posto diverse persone fra cui riconobbi solo il nominato Fragna Luigi, le quali si misero a seguirci mentre il Fragna ci precedeva armato di bastone e, di tanto in tanto, si fermava per guardarci in faccia, evidentemente allo scopo di conoscere alcuni di noi.
Giunti al Corso Vittorio Emanuele 3, all’altezza della Parrocchia dell’Immacolata il Fragna afferrava per il petto il nostro compagno, Bertone Diodato e gli tirava un colpo di bastone al fianco sinistro esclamando, “ Compagni diamole, questo è il capo dei socialisti rivoluzionari”. In quell’attimo io e gli altri ci demmo alla fuga e nell’allontanarci sentii diversi colpi di arma da fuoco. Non sono in grado di precisare chi abbia sparato detti colpi che mi sembrano essere di moschetto. Attraversando alcuni vicoli raggiunsi l’abitazione di mia madre al Largo Fontana, dove vi trascorsi la notte e la mattina successiva appresi che il Bertone era stato ucciso dagli aggressori di cui sopra.
Dopo la firma di Giaccaglia e del funzionario di pubblica sicurezza, sotto lo stesso foglio fu aggiunta la testimonianza di Alfredo Conato, il quale sostanzialmente confermò in ogni sua parte la dichiarazione resa dal compagno di lavoro. Stesso procedimento per Antonio Pusino e Nunzio Angrisani. Anche per loro fu sufficiente confermare la versione del primo interrogato. Unica aggiunta fu che mentre si allontanavano furono fermati dai carabinieri locali e trattenuti in carcere per oltre un mese e poi rilasciati in libertà provvisoria. Il rapporto alla Questura dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Torre Annunziata del 15 gennaio 1944, in cui si rende noto di aver identificato i cinque testi presenti al momento del delitto, faceva, tra gli altri i nomi della famiglia Bertone, pur non presente ai fatti. Questo ci consente di aprire uno spaccato sulla famiglia raccontandoci la loro situazione, cosa erano diventati 23 anni dopo. Così apprendiamo di Emma che abitava in via Eolo, di Ermete ancora sotto le armi, di Carlo, fatto prigioniero in Inghilterra e non ancora rientrato in Patria, di Wilson, nell’elenco denominato Guisson, abitante in via Nazionale, in Villa Rosa, impiegato delle Ferrovie dello Stato, di Diodato, l’ultimo nato, militare della Regio Aeronautica, di stanza a Taranto, ma operaio dell’Ilva, come il fratello maggiore. Per ultimo fu lasciato Leonida, colui che doveva essere ascoltato in nome e per conto dell’intera famiglia. Abitava in via Garibaldi 34 ed era impiegato nelle ex Ferriere del Vesuvio, ora Ilva. Mancano in questo elenco due figli, Olimpia, nata nel 1901 e Ida nata nel 1906, non sappiamo se scomparsi prematuramente. Di certo entrambe si erano sposate, la prima il 16 settembre 1922, mentre Ida lo aveva fatto ancora minorenne, a soli 16 anni, il 9 marzo 1922, sei mesi prima della sorella maggiore.
La testimonianza di Leonida a nome della famiglia, ovviamente, non poteva essere utile ai fini delle indagini non essendo presente ai fatti e a Leonida non restò altro che consegnare un documento nel quale si faceva presente la posizione della famiglia, precisando comunque che alcuni documenti utili al processo erano reperibili presso l’avvocato Pasquale Savastano. Documenti che il legale si era rifiutato di consegnare a Leonida nonostante una formale richiesta. Documenti che non furono acquisiti dal giudice. E fece i nomi dei cinque testimoni, i compagni che la sera tragica del 25 febbraio 1921 accompagnavano suo padre: Angelo Giaccaglia, Alfredo Conato, Antonio Pusino, Alfonso D’Avino e Nunzio Angrisani.
Intanto la stampa, a sua volta non restò in silenzio. Cominciò il quotidiano, Il Giornale, subito seguito da, La Voce, l’otto novembre 1944, chiedendo la riapertura del processo che stentava a decollare.
Durante il processo risultarono evidenti le responsabilità di alte gerarchie fasciste ma gli imputati beneficiarono dell’amnistia concessa…per fini nazionali. Il processo a carico degli imputati deve essere riaperto e celebrato secondo giudizio. Non deve essere più oltre permesso che i criminali che compirono tale orrendo delitto vivano indisturbati e liberi. Bertone era uno dei fondatori della sezione socialista di Torre Annunziata e militava nel partito da oltre 30 anni. Quindi la reazione fascista volle colpire in lui un socialista ardente e formidabile.[32]
Gli articoli allarmarono non poco l’ormai anziano Fragna, obbligandolo a difendersi per evitare un processo ed una galera poco piacevole. Così scrisse al procuratore del Re proclamando la propria innocenza, di essere vittima di una mostruosa macchinazione messa in moto dai partiti di sinistra per incolparlo di un delitto che non aveva commesso, come aveva dimostrato lo stesso processo in cui era risultato imputato ventidue anni prima. Giornali e stampa dell’epoca, scriveva Fragna, avevano dimostrato che non fu un delitto politico ma causato da una rissa finita male, non a caso il maggior indiziato, il vero assassino, fu Carlo Peirce, condannato ad una pena superiore alla sua, mentre lui, il Fragna fu ritenuto soltanto complice in omicidio. Fragna mentì spudoratamente perché in realtà lui ebbe sei mesi in più rispetto al suo complice, ma a questo, per quando ci è dato sapere, nessuno, stranamente, replicò. La nuova ingiustizia era dietro l’angolo.
Per dimostrare la presunta buona fede, Luigi Fragna portò ad esempio la sua testimonianza utile a scagionare un innocente. Seguiamo il suo ragionamento:
Tra gli indagati figurava anche un operaio iscritto alla Camera del Lavoro e che era stato accusato dal Bertone, dinnanzi al medico di guardia dell’Ospedale dove era stato ricoverato ed alla presenza di due suore, di essere stato lui solo a colpirlo. Questo operaio era un tal Pasquale Russo che in conseguenza di tale accusa era stato rinviato alla Sezione d’accusa per rispondere dell’omicidio del Bertone, mentre il Peirce era stato scarcerato. Ma il sottoscritto sapeva che il Russo non aveva preso parte alla rissa, che invece, trovandosi per altre sue ragioni sul posto aveva platealmente raccolto il ferito e aiutato a trasportarlo all’ospedale, mentre chi aveva sparato contro il Bertone era proprio il Peirce. Ed egli non permise il salvataggio di quest’ultimo pur trattandosi di un fascista, perché tale salvataggio avrebbe portato alla condanna del Russo, che era innocente. Al di sopra della passione politica egli sentì la voce della sua coscienza e con un lungo esposto alla Sezione d’Accusa dimostrò l’innocenza del Russo, che era un comunista, e la colpevolezza del suo compagno di fede. Il Peirce fu di conseguenza riacciuffato e condannato (…) mentre il Russo, unicamente per l’opera spiegata in sua difesa dal sottoscritto, venne dalla Corte di Assise prosciolto per non aver preso parte al fatto.
Chiusa la parte eroica del suo operato, Fragna cominciò con il vittimismo, piagnucolando contro i cattivi del mondo. Nel suo lungo memoriale Fragna accusò, senza fare nomi, alcuni noti agitatori, in mala fede, per la campagna diffamatoria atta a far riaprire il processo contro di lui, una campagna che si tradusse, secondo l’ipotesi difensiva del Fragna, in una vera e propria persecuzione nei suoi confronti. Lui era una persona anziana, aveva ormai più di settanta anni ed era costretto ancora a lavorare al porto di Napoli per dar da vivere a quattro persone della famiglia. Conseguenza di questa campagna di stampa era stata la casa incendiata, l’aggressione subita, l’accusa di omicida. Fragna trovava inspiegabile tanto odio contro di lui per un delitto che non aveva commesso. E qui arrivò al paradosso di rinnegare sé stesso, la sua fede fascista e le odiose onorificenze che si era guadagnato. La qualifica di Squadrista? Non poteva averla perché non aveva mai partecipato alla marcia su Roma, non avrebbe potuto visto che era in galera per l’omicidio Bertone. Non sono l’unico, si difese Fragna, ad avere ricevuto il brevetto della marcia su Roma senza avervi partecipato. E quanto uscì di galera si guardò bene dal partecipare alla vita attiva del partito per non passare altri guai, essendogli bastata la prima lezione. E per dimostrare ciò portò ad esempio la riabilitazione ricevuta nel 1938 dalla Corte d’Appello. Perciò confidava nella Giustizia.
Una Giustizia lenta a muoversi, nonostante l’evidenza dei fatti e la chiarezza delle testimonianze, talmente macchinosa che Fragna continuò indisturbato a muoversi a suo piacimento, fino a quando non fu fermato dalla polizia politica per indagini il 19 marzo 1945 a Napoli, dove risiedeva, ma solo in quanto ex squadrista indicato in pubblico come capace di riprendere contatti con altri fascisti a scopo organizzativo, nonostante l’età ormai avanzata. Non vi rimase molto in carcere, al punto da essere rimesso in libertà dieci giorni dopo, il successivo 29 marzo, su ordine della Procura, non avendo la Questura trovato nuovi elementi per trattenere l’indagato. Eppure l’articolo 3 del Decreto Legislativo, 27 luglio 1944 recitava testualmente:
Coloro che hanno organizzato squadre fasciste, le quali hanno compiuto atti di violenza o di devastazione, e coloro che hanno promosso o diretto l’insurrezione del 28 ottobre 1922 sono puniti secondo l’art. 1120 del Codice penale del 1889. Coloro che hanno promosso o diretto il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 e coloro che hanno in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista sono puniti secondo l’art. 118 del Codice stesso. Chiunque ha commesso altri delitti per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo è punito secondo le leggi del tempo.
Sembrava scritto su misura per i reati commessi da Fragna, se non altro per il suo passato fascista, fatto di abusi, violenze e assassinio. Ma se qualcuno si aspettava finalmente Giustizia questa non arrivò. IL 25 marzo era stato interrogato dalla Delegazione provinciale per L’Epurazione, ma ancora una volta Fragna negò ogni addebito sul suo passato fascista, così come negò di essere in contatto con altri camerati per la ricostituzione illegale del partito. La Questura fece presente la pericolosità del soggetto, ma si limitò a proporlo per l’assegnazione ad una colonia agricola peer evitare che possa riannodare le fila del disciolto partito fascista.
In una informativa riservata del 29 maggio 1945 della Questura, si scrive:
I due magistrati, Comm. Cucurullo Fortunato e Cav. Ferrante Michele Arcangelo, che nel marzo 1923 giudicarono nella locale Corte d’Assise l’ex squadrista Fragna Luigi fu Raffaele, erano, secondo quanto è stato assicurato, elementi molto apprezzati per probità, rettitudine e competenza professionale. Ciò non toglie, però, che data la gravità del fatto e la lievità detta condanna emessa contro il Fragna, abbia influito lo stato di morale coercizione determinata dal fascismo, cui nessun magistrato, anche se non troppo favorevole all’ex regime, come il Comm.re Cucurullo e il cav. Ferrante, poteva, come è noto, sottrarsi durante il periodo in quel clima politico. I due magistrati, collocati a riposo alcuni anni or sono per limiti d’età, pare che attualmente siano deceduti (…).
La revisione del processo non si ebbe, nonostante il riconoscimento formale di una sentenza viziata dalla coercizione determinata dal fascismo.
La stessa Commissione provinciale di Napoli dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, presieduta da Rocco Caselli, il 25 settembre 1945 aveva affermato nel suo dispositivo finale di rimandare ad altra Commissione competente. Fragna se la cavò con la registrazione nel Casellario Politico Centrale come fascista e pertanto sottoposto a controllo periodico sul suo operato. Un blando controllo, fino a quando, due anni dopo, il 23 dicembre 1947, non fu definitivamente radiato, cancellato dal novero delle persone da vigilarsi politicamente. Il processo fu bruciato anzitempo, forse, dalla certezza di un amnistia generalizzata che puntuale venne, voluta da Palmiro Togliatti in nome della pacificazione nazionale, subito dopo l’avvento della Repubblica, il 22 giugno 1946, impedendo che molti, troppi colpevoli pagassero le loro colpe, per i loro terribili, inutili, feroci delitti. E ingiustizia fu fatta!
Il 27 febbraio 1944, in una manifestazione organizzata dalle sezioni socialista e comunista di Torre Annunziata, il martire torrese fu commemorato, con commossa eloquenza, dal Segretario della Camera del Lavoro locale, Michele Atripaldi e da Filippo Russo (1882 – 1965), in rappresentanza della sezione comunista. Da Napoli intervenne Giuseppe Benvenuto, a nome della segreteria provinciale del Psi.
La prima amministrazione democraticamente eletta a Torre Annunziata, con le elezioni del 15 giugno 1947 e guidata dal sindaco comunista, Pasquale Monaco, con deliberazione dell’8 gennaio 1948, volle intitolare al nome di Diodato Bertone l’antica via Stella, luogo dell’assassinio. Successivamente, nel trentennale della Resistenza, sindaco Luigi Matrone, il Comitato Comunale per la celebrazione del del 30° anniversario della Resistenza, memore della sua condotta di vita, gli assegnò la medaglia d’oro con la seguente motivazione:
Militante socialista, operaio dell’Ilva, barbaramente assassinato da una squadraccia fascista la notte del 25 febbraio 1921, mentre faceva ritorno a casa dopo una giornata di duro lavoro, vittima della bestiale ferocia fascista. Egli è rimasto vivo nel ricordo e nel cuore della classe operaia torrese e di tutti i sinceri democratici antifascisti. Torre Annunziata 25 aprile 1975.[33]
Nel 1977, nel cinquantenario delle Leggi Speciali Fasciste del 26 novembre 1926, in ricordo ed onore di quanti coraggiosamente, sfidandole, custodirono all’Italia il bene prezioso della sua libertà, l’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA), consegnò alla famiglia il Diploma di benemerenza, intitolato a Diodato Bertone.
I socialisti di Torre non avevano mai dimenticato il loro compagno, martire della libertà e, passato il regime fascista, vollero ricordarlo alle nuove generazioni intitolandogli la sezione del partito, la cui sede era al Corso Vittorio Emanuele, nello stesso edificio in cui era situata la Camera del Lavoro. Altrettanto fecero i comunisti, intitolando la loro prima sezione del dopoguerra a Gino Alfani. Due sezioni che ormai, non esistono più, come non esistono i partiti che quella storia hanno vissuto.
Nota dell’autore.
Il presente lavoro è uno stralcio di una più ampia ricerca, ancora inedita, in attesa di pubblicazione. A tale scopo le note in calce sono state ridotte all’essenziale.
Una precedente, brevissima, biografia era stata già pubblicata da Nuovo Monitore il 21 ottobre 2017. La presente naturalmente corregge e integra la precedente.
[1]Eduardo Ferrone: Le radici del malessere, Napoli 1983, pag. 22
[2] Per maggiori notizie su Beniamino Romano, cfr. Raffaele Scala: La Camera del Lavoro di Gragnano. 1909 – 2009, Nicola Longobardi Editore, 1910.
[3]Gli elettori furono 1.964, i votanti 1.575. Il Psi con circo 250 voti non ottenne nessun seggio. Le elezioni furono vinte dal partito degli industriali di Ciro Ilardi, riportando la maggioranza assoluto dei voti e ottenendo 22 seggi. La minoranza andò all’Unione Democratica di Pelagio Rossi che conquistò i residui 8 seggi.
[4] Avanti!, 12 settembre 1906: Un altro infortunio mortale.
[5] L’Emancipazione, n. 9 del 5 marzo 1910: Cronaca delle Ferriere del Vesuvio.
[6] Avanti! 5 aprile 1913, articolo in prima pagina: Lo sciopero dei metallurgici di Torre Annunziata
[7] L’Avanguardia, Anno VII, n.286, 11 maggio 1913: Torre Annunziata.
[8]Il Metallurgico, n° 4, aprile 1913, art. L’invincibile resistenza degli eroici scioperanti di Torre Annunziata.
[9] Maurizio Antonioli e Bruno Bezzi: La Fiom dalle origini al fascismo.1901 – 1924, De Donato Editore, Bari 1978.
Avanti!, 7 novembre 1918: Il Congresso nazionale metallurgico. La conquista delle otto ore, dove è riportato l’intervento di Bertone. Nel numero del 12 novembre lo ritroviamo in un elenco di sottoscrittori a favore del giornale socialista, denaro raccolto nel corso del Congresso nazionale.
[10] Tale ipotesi ci è stata poi confermata da un diretto discendente di Diodato, Marco Convalle, con il quale ho avuto un lungo scambio epistolare, via posta elettronica.
[11] Avanti!, 2 novembre 1916: Dalle Ferriere del Vesuvio.
[12] Ibidem
[13] Avanti!, 17 febbraio 1919: Da Torre Annunziata per le otto ore e Riunione di metallurgici.
[14]ACS, Prefetto a Ministro dell’Interno:Torre Annunziata, sezione socialista, 9 febbraio 1921.
[15]Angelo Tasca: Nascita e avvento del fascismo, Universale Laterza, 1982.
[16] Raffaele Scala: Centodieci anni di sindacato a Castellammare di Stabia. Le origini, in Cultura&Società, anno VII-XI, n. 7-11, 2017.
[17] La Conquista, organo del Partito Socialista Napoletano, n. 21 del 26 maggio 1922: Giustizia di classe.
[18] Angelo Abenante: Per la libertà. Sorvegliati dall’Ovra a Torre Annunziata, Ed. Libreria Dante e Descartes, 2009.
[19] Eduardo Ferrone: cit. pag.19-24
[20] Avanti!, edizione centromeridionale, 27 febbraio 1921: La nuova aggressione fascista.
[21] Giorgio Alberto Chiurco: Storia della rivoluzione fascista. 1919-1922, volume I, Vallecchi Editore, 1929.
[22] Il Mezzogiorno, 27 febbraio 1921: Una tragica notte a Torre Annunziata. Scontro tra fascisti e socialisti. Un morto. Due feriti. Diversi arresti, articolo di Dilectis.
[23] Il Mattino, 27/28 febbraio 1921: Tragico conflitto a Torre Annunziata tra comunisti e fascisti..
[24] Roma, 27 febbraio 1921:Le esequie dell’operaio ucciso a Torre Annunziata.
[25] Rosa Spadafora: Il popolo al confino. La persecuzione fascista in Campania, Edizioni Athena, 1989
[26]Il Mattino, 22/23 febbraio 1921: Domenica di violenza in tutta Italia. Conflitti tra fascisti e socialisti.
[27] Roma, 21 febbraio 1921: La patriottica manifestazione di ieri a Torre Annunziata.
[28] Roma, 19 marzo 1923: Il conflitto di Torre Annunziata tra fascisti e comunisti.
[29] Roma, 21 marzo 1923: Processo Fragna – Peirce. Omicidio Bertone a Torre Annunziata.
[30] George Orwell: La fattoria degli animali, Oscar classici Mondatori, 1995, pag. 100
[31]Ferdinando Pagano: Antifascismo e Anti – Antifascismo, Torre Annunziata, 1988.
[32] La Voce, 8 novembre 1944: L’assassinio del compagno Bertone.
[33] A. Abenante: Per la libertà. Sorvegliati dall’Ovra di Torre Annunziata. Ed. Libreria Dante&Descartes, Napoli 2009.
Leave a Reply
Devi essere connesso per inviare un commento.