Gaza: la terra cancellata

di Tonino Scala

C’è un filo nero che lega il passato al presente. La storia della Palestina è una storia di case rase al suolo, di chiavi appese al collo senza più porte da aprire, di villaggi cancellati dalle mappe. Oggi, a Gaza, questo filo si tende fino a spezzare ogni speranza: non bastano più i bombardamenti, ora si procede con la demolizione sistematica, calcolata, di ciò che resta.
Non è solo guerra. È un disegno. Bulldozer ed esplosivi, manovrati da squadre civili organizzate, entrano nelle città e riducono tutto in polvere. Non parliamo di esercito in senso stretto, ma di gruppi appaltati, coloni che lavorano sotto copertura militare. La loro missione non è difendersi, né colpire obiettivi strategici: è rendere Gaza invivibile, cancellare le tracce della vita palestinese, impedire per sempre il ritorno dei suoi abitanti.
Case, scuole, palazzi pubblici: tutto viene spianato. Non dall’alto con bombe sganciate dagli aerei, ma metro per metro, mattone dopo mattone, con bulldozer e cariche di esplosivo. È un lavoro lento, spietato, che non lascia possibilità di ritorno. Non si vuole più soltanto vincere militarmente: si vuole desertificare, negare il diritto di esistere.
In queste operazioni non c’è nulla di casuale. Gruppi organizzati da mesi, con nomi e catene di comando ben precisi, agiscono con l’obiettivo dichiarato di “radere al suolo Gaza”. Non colpiscono basi militari o postazioni di combattenti, ma quartieri residenziali. La logica è quella dell’annientamento civile: eliminare la possibilità che un popolo, un domani, possa ritrovare il proprio posto nel mondo.
Eppure questa strategia non è nuova. È la ripetizione di un copione antico, iniziato nel 1948 con la Nakba, la catastrofe che costrinse centinaia di migliaia di palestinesi a lasciare le proprie case. Oggi, come allora, la distruzione non serve a difendersi ma a cancellare. Gaza diventa così la prosecuzione di una tragedia che dura da più di settant’anni: una terra negata, un esilio che non finisce mai.
Non possiamo fingere di non capire. Non possiamo ridurre tutto a un linguaggio tecnico, a “danni collaterali”, a “necessità operative”. Qui c’è un popolo che viene privato non solo della vita, ma della memoria, del futuro, della possibilità di tornare. Ogni casa abbattuta è un diritto negato, ogni quartiere raso al suolo è un pezzo di identità che scompare.
Il silenzio del mondo pesa quanto il rumore dei bulldozer. Gaza non è solo macerie: è la testimonianza di un crimine che si ripete sotto i nostri occhi. Continuare a guardare senza parlare significa diventare complici.
Il diritto al ritorno, sancito da risoluzioni internazionali, viene ogni giorno sepolto sotto nuove colate di cemento frantumato. Eppure resiste nella coscienza di chi tiene ancora una chiave in tasca, nella voce di chi tramanda la memoria, nei bambini che nascono senza mai vedere la loro casa, ma continuano a chiamarla per nome.
Radere al suolo non è una strategia militare: è un progetto politico di cancellazione. Contro questo disegno non bastano le condanne di rito. Serve la voce indignata del mondo, serve il coraggio della denuncia, serve la forza della memoria. Perché un popolo senza case è un popolo che rischia di essere cancellato. Ma un popolo che resiste, nonostante le macerie, non potrà mai essere sconfitto.

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