Il Recovery Fund  alla prova  del Mezzogiorno

di Raffaele Cimmino

Il Recovery Fund  alla prova  del Mezzogiorno.

 

ll Recovery Fund -la considerevole mole di risorse ( per l’Italia 209 miliardi di euro), parte prestiti e parte sovvenzioni a fondo perduto, che le istituzioni europee hanno indirizzato ai diversi paesi della Ue per superare le gravi ricadute economiche della crisi Covid- ha il considerevole merito di avere tra i propri obiettivi anche quello di porre rimedio ai divari territoriali dei singoli Stati. Per l’Italia il rimando alla questione del Mezzogiorno, rimasta da decenni in secondo piano quando non soppiantata da una capziosa “questione settentrionale”, è immediato. Se il divario territoriale nazionale ritorna all’ordine del giorno, il rischio da evitare è quello di affrontarlo con strumenti vecchi. Uno dei quali è la tesi per cui la società meridionale sia incapace di afferrare le occasioni di sviluppo: come se una sorta di tara antropologica condannasse il Sud all’arretratezza. Quando si parla  (con una parte di verità) di scarsità del capitale sociale o di una curvatura irrimediabilmente assistenzialista e clientelare delle istituzioni al Sud  è questo quello che più o meno velatamente si intende. Ma, se si sta ai dati reali, le condizioni del Sud sono conseguenza di scelte politiche. Più precisamente delle scelte che hanno portato a tagliare investimenti e risorse proprio nei momenti di maggiore crisi economica, dal 2008 in poi ma anche da prima, accentuando una tendenza già in atto. Quindi è solo se si inverte la tendenza che le condizioni del Sud possono cambiare in meglio.
Il rapporto Svimez 2020, oltre a confermare i dati poco confortanti degli scorsi anni in termini di reddito e occupazione al Sud, ribadisce che è solo la quantità e la qualità degli investimenti che può colmare il divario Nord-Sud. Come è ampiamente riconosciuto, se si innalzasse la quota di investimenti diretti al Mezzogiorno rispettando quella clausola del 34% che è stata nel corso degli anni ampiamente disattesa, si produrrebbero effetti importanti riattivando significativi processi di coesione territoriale. Una maggiore incidenza degli investimenti al Sud produrrebbe in quest’area una crescita sostenuta del Pil nel breve periodo di oltre 5,5 punti nel quadriennio, e un balzo della produttività di quasi 1,6 punti percentuali, superiore a quanto previsto per il Centro-Nord. Non solo l’effetto sarebbe quello  di innescare percorsi di convergenza, ma si renderebbe possibile anche una maggiore crescita complessiva  del paese, sia nel breve che nel lungo periodo.
Si conferma così che il disinvestimento dal Mezzogiorno ha danneggiato anche il sistema economico nazionale, favorendo nello scorso decennio il distacco dai tassi di crescita del resto d’Europa. Dunque, non è semplice rivendicazionismo territoriale la proposta di concentrare più risorse al Sud  ma un’azione fondamentale per il rilancio di tutta l’economia nazionale. Se poi si arrivasse a un superamento della clausola del 34%, spingendo fino al 50% la quota di destinazione delle risorse del Recovery Fund al Mezzogiorno, si innalzerebbe il differenziale di produttività a favore del Sud di oltre 6 decimi. E si velocizzerebbe la dinamica di convergenza verso il resto dell’Europa, dato che la produttività complessiva del Paese aumenterebbe ulteriormente.
Nella questione del Mezzogiorno solitamente si omette di considerare l’oggettiva interdipendenza tra Nord e Sud. Tenendone conto si può arrivare alla conclusione che maggiori investimenti al Sud produrrebbero un effetto indiretto sulle stesse produzioni del Nord, attraverso una domanda di beni e servizi necessari alla realizzazione di tali investimenti. La Svimez calcola che per ogni euro di investimento al Sud, si generi circa 1,3 euro di valore aggiunto per il paese e che, di questo, circa 30 centesimi ricadano nel Centro-Nord. Mentre nel lungo periodo il processo di accumulazione di capitale produce dinamiche del moltiplicatore più sostenute nel Mezzogiorno che al Centro-Nord. Ancora la Svimez evidenzia come, posto uguale ad 1 il valore del moltiplicatore nel primo anno di realizzazione degli investimenti, questo cresca di oltre il 70% al Mezzogiorno alla fine del quadriennio, contro una crescita del 10% al Centro-Nord.
E’ evidente che se le risorse del Recovery Fund venissero dirottate soprattutto al Nord, richiesta che è già stata avanzata in base all’argomentazione che è nelle regioni settentrionali che si trova il motore produttivo del paese, si farebbe una scelta sbagliata. Con il Recovery Fund si deve soprattutto riconvertire il sistema produttivo e attraverso questo sforzo colmare il divario storico tra le due aree del paese. Se servisse solo a sostituire gli investimenti ordinari replicando le storture degli ultimi tre decenni, si sprecherebbe un’occasione irripetibile inficiando uno dei principali obiettivi dello stesso Next Generation EU, cioè il superamento dei divari territoriali.
Si conferma che tenere inalterato (e così aggravare) il divario Nord-Sud o porvi rimedio e superarlo non è questione che riguardi solo l’ostacolo determinato da condizioni preesistenti ma è, e così è sempre stato, una scelta interamente politica. Per questo l’azione del governo e le decisioni sull’impiego del Recovery Fund andranno vagliate attentamente alla luce della capacità di rispondere alle ragioni del Mezzogiorno più che dei centri di potere che si sono lanciati all’assalto delle risorse impugnando la bandiera della presunta locomotiva dell’economia nazionale rappresentata dal Nord.

 

 

 

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