
di Ranieri Popoli Sinistra Italiana Avellino
Nonostante una certa difficoltà iniziale i 4 referendum sul lavoro sono sempre più compresi dai cittadini italiani. Il tetto del quorum, senza cedere a facili illusioni, piano piano inizia ad avvicinarsi. Le forze che si oppongono ad essi hanno scelto la via del silenzio perché ingaggiare una battaglia politica vuol dire comunque riconoscerli e favorire una certa attenzione in quanto si sa che se si supera il 50% dei votanti il SI ha una ragionevole chance di affermarsi. La Grande Distrazione è in pieno svolgimento, quindi, e i protagonisti sono quelli dell’Italia che conta nel mondo dell’economia, dell’informazione, delle istituzioni e della politica. Ma tutto ciò non è sufficiente a spiegare compiutamente questa diffusa disattenzione per cui, anche se mancano poche settimane, la crescente mobilitazione dei SI deve continuare e crescere pur nella consapevolezza delle criticità ancora esistenti. Ecco perché occorre riconoscere che il problema di fondo non sta tanto nell’attuale dinamica referendaria quanto in quel contesto piu storico e generale che vede il nostro Paese, oramai da 36 anni, privato di una dimensione politica nella quale far maturare, dopo la “Repubblica dei Partiti” , una nuova civiltà democratica e una nuova coscienza nazionale. Le grandi questioni della vita italiana, il lavoro, ma anche la sostenibilità ambientale, la qualificazione delle risorse pubbliche, la democrazia territoriale, l’innovazione produttiva, ecc., non hanno trovato più sedi autorevoli per essere affrontate seriamente dalla classe dirigente diffusa e di riflesso dall’opinione pubblica. Il prevalere del distorsivo modello della premiarita’ della governabilità sulla rappresentanza partecipativa ha sottratto tali temi all’interesse collettivo per restare materia “tecnica” per addetti ai lavori, scomparendo di fatto nei luoghi tradizionali e strategici del dibattito nazionale: luoghi di lavoro, scuole e università, spazi sociali, mass media e stampa, partiti, sindacati, mondo associativo, fatto salvo, ovviamente, le poche e significative esperienze di controtendenza. È vero che i quesiti referendari sul lavoro hanno conosciuto fasi alterne di attenzione ma bisogna riconoscere che, seppur ricorrendo a queste “forzature” istituzionali, occorre dar merito ai proponenti, e in particolare alla CGIL, l’ aver riportato tali temi all’attenzione del Paese intero. Tanti sono i cittadini non ancora ben informati e non pochi sono quelli scettici o indecisi. È del tutto evidente che in un mese,anche di serrata campagna elettorale, non si può “educare” un popolo perché
, come dice lo stesso significato del termine, occorrerebbe abituarlo ad avere una propria e libera conoscenza delle problematiche. Quindi è in tale vulnus che si è calato, con scaltro opportunismo, il mainstream che rende indecifrabili i quesiti referendari a tanta parte del popolo italiano. Eppure, senza entrare nei tecnicismi normativi, le ragioni del SI sono chiare e rappresentate anche con una certa facilità comunicativa. A questo punto a complicare la situazione subentra un radicato convincimento che vuole queste libertà padronali come delle necessità per resistere alla tempesta dell’attuale economia globalizzata pena la chiusura delle loro attività d’impresa. Un messaggio forte e dirompente tanto da creare non pochi dubbi agli stessi lavoratori direttamente o indirettamente interessati. Ma davvero le cose stanno proprio così? La prima considerazione da realizzare per tentare di smontare questa tesi sarebbe quella di chiedersi come mai seppur con queste “concessioni” in attuazione negli ultimi dieci anni l’economia italiana è in stallo, le realtà produttive diffuse vivono uno stato permanente di difficoltà e perdiamo terreno nell’innovazione e nella ricerca, specialmente nel Mezzogiorno? Per essere ancora più precisi con l’introduzione di queste
deregulation in fin dei conti cosa c’ha guadagnato il mondo dell’impresa in termini di crescita e di svolta gestionale? Nulla o quasi è questo lo dicono a chiare lettere i rapporti statistici ufficiali dello Stato. C’hanno perso solo i neo assunti e i giovani lavoratori più in generale in termini di garanzie e tutele. Si vuol far credere che se dovessero vincere i SI le piccole imprese cadrebbero in disgrazia , perché obbligati a far lavorare chi la Legge ha ritenuto meritevoli di essere riassunti.Da precisare che questa categoria di aventi diritti non è un esercito di ritorno dalla campagna di Russia ma un numero tutto sommato modesto. Le piccole imprese sono una grande e meritevole realtà del contesto economico italiano ed europeo. Pagano le tasse, probabilmente anche troppe, e hanno una realtà lavorativa non tutelata dallo Statuto dei lavoratori, quindi già caratterizzata da una certa flessibilità, ivi comprese un numero non indifferente di agevolazioni fiscali e di investimenti provenienti da fonti pubbliche. E allora qual’e’ la vera posta in gioco di cui si preferisce tacere? È evidente che si tratta di qualcosa di molto più importante dei quesitii in gioco e cioè quello di far percepire il lavoro non più come un diritto ma una concessione, un principio da trasferire in un nuovo contesto culturale neocorporativo dove il conflitto sociale viene estirpato perché le nuove generazioni vedano i sindacati non come i loro difensori, ma quelli che li espongono al rischio di non essere mai assunti. Ecco perché il giovane lavoratore non deve sapere di chi è la responsabilità in capo nella filiera degli appalti nel caso dovesse subire un incidente sul cantiere, deve prendersi i soldi e andarsene anche se ha diritto all’ reintegro nel mentre ha messo su mutui e famiglia. Se ĺa politica e la Sinistra volessero affrontare le ragioni di fondo che hanno consentito uno snaturamento culturale delle dinamiche del mondo del lavoro e dell’impresa, farebbero finalmente cosa buona e giusta. Il giuslavorismo italiano è stata una vera scuola di pensiero che negli sessanta e settanta ha dialogato con il mondo del lavoro e della produzione di tutta Europa e con diverse realtà internazionali.
Si è poi incontrato con la politica e le istituzioni generando provvedimenti che hanno fatto Storia. Purtroppo da questa importante realtà è rimasto fuori il resto che non è dato solo dalla piccola impresa ma sempre più da quel variegato mondo fatto di una pluralità di nuove esperienze lavorative dove il diritto del lavoro tra timori e impotenze è praticamente nullo. Ecco perché il merito più evidente di questi referendum è quello di aver inglobato nella lotta sindacale gli esclusi e questo è un merito storico che ora bisogna trasformare in un’azione quotidiana mettendo di nuovo il giuslavorismo a servizio della Politica e non per non essere piu “esecutore” delle volontà goverative di turno, cosa che farebbe bene allo stesso sindacato per rigenerare la sua stessa base sociale e rinnovare le stesse classi dirigenti. Un’economia fondata su diritti e mancanza di sfruttamento sembra quasi un modello dannoso e non competitivo. Ma qui si tratta solo di capire se vogliamo una crescita che distribuisca redditi e ricchezza su famiglie e territori o se si vuole un Paese che volge sempre più lo sguardo verso l’America Latina o l‘Est asiatico.
Non fermiamoci e andiamo avanti fino all’ 8 e 9 Giugno, fino al Capo di Buona Speranza.
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