Oltre Maastricht: la guerra dei dazi e il ritorno alla politica economica democratica

 

di Michele Iervolino

Dal prossimo 1° agosto, i prodotti europei che varcheranno l’Atlantico verranno colpiti da dazi doganali del 30%. È l’ennesimo colpo assestato da Donald Trump all’ordine economico internazionale, e questa volta colpisce dritto al cuore del modello export-oriented su cui si è basata per decenni la crescita di gran parte dell’Unione Europea.

La risposta dell’Europa? Silenziosa, impacciata, e soprattutto ostaggio di un vincolo ormai anacronistico: i parametri di Maastricht.

Maastricht: un’ideologia travestita da tecnica

Nel 1992, in un mondo che credeva ancora nei miracoli del mercato globale, i Trattati di Maastricht introdussero una serie di criteri rigidi per l’accesso all’Unione Monetaria. In particolare:

il deficit pubblico non doveva superare il 3% del PIL;

il debito pubblico doveva restare sotto il 60% del PIL;

 

l’inflazione e i tassi d’interesse dovevano essere allineati con i paesi “virtuosi”.

 

Dietro la facciata della stabilità macroeconomica, però, si nascondeva un’ideologia liberista, che ha reso strutturale la sottrazione della sovranità economica ai governi democraticamente eletti. In altre parole: abbiamo costituzionalizzato l’austerità.

La guerra dei dazi è uno spartiacque

La decisione dell’amministrazione Trump di tassare i prodotti europei rappresenta una cesura. È il segno che l’era del libero scambio senza regole è finita. E non per una deviazione tattica, ma per una precisa scelta di politica industriale, mascherata da patriottismo economico: “America First” non è uno slogan, è una strategia.

In questo contesto, i parametri di Maastricht diventano non solo inadeguati, ma pericolosi. Impongono limiti rigidi alla spesa pubblica proprio mentre ci sarebbe bisogno di investimenti straordinari in:

industria e innovazione, per difendere l’autonomia produttiva;

servizi pubblici, per sostenere le fasce più colpite dalla crisi;

transizione ecologica, per rendere il continente resiliente e giusto;

difesa del lavoro, per evitare che la concorrenza sleale schiacci salari e diritti.

Una risposta keynesiana e democratica è possibile

La sinistra, se vuole essere all’altezza della storia, deve abbandonare ogni timidezza riformista e tornare a parlare di spesa pubblica come leva di sviluppo. In una parola: deve tornare a Keynes, ma aggiornato al XXI secolo.

Serve una riforma profonda dei Trattati europei, che metta al centro la giustizia sociale e non il pareggio di bilancio. Alcuni punti non più rimandabili:

Sospensione definitiva dei parametri di Maastricht, già derogati in pandemia;

Introduzione della golden rule: gli investimenti pubblici strategici (ambiente, salute, scuola, innovazione) devono essere esclusi dal calcolo del deficit;

Nuovo Patto di Solidarietà Europea, fondato su mutualizzazione del debito, fiscalità progressiva e coordinamento industriale;

Protezione commerciale europea intelligente, che non diventi nazionalismo economico, ma tutela attiva del lavoro, dei territori e dell’ambiente.

La sovranità democratica come progetto europeo

I vincoli di bilancio non sono una legge naturale: sono una scelta politica. E come tutte le scelte politiche, possono (e devono) essere cambiate. Continuare a difendere i parametri di Maastricht oggi equivale a difendere l’impotenza della politica davanti alla crisi.

La vera alternativa è un’Europa che torni a essere padrona delle sue scelte economiche, capace di pianificare, proteggere, investire e redistribuire. Un’Europa che assomigli più al New Deal di Roosevelt che ai manuali del FMI.

In un tempo di guerre, crisi climatiche, tensioni sociali e nuove povertà, servono più Stato, più diritti, più democrazia economica. Questo è il compito della sinistra oggi: rimettere l’economia al servizio delle persone, non del rigore contabile.

 

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