RICOMINCIO DA TRE

di Sirio Conte

A qualche giorno dal Referendum possiamo avviare una riflessione che si allontani dai riflessi pavloviani delle propagande e puntare ad una osservazione dei processi sociali profondi visti dall’angolatura dell’8 e 9 giugno.

Innanzi tutto sgombriamo il campo da ogni possibile equivoco: la battaglia referendaria non ha conseguito l’obiettivo di abrogare quelle norme ingiuste così come da quesiti proposti. E se, in maniera del tutto scorretta, l’obiettivo “vero” era dare un colpo al governo, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una sconfitta. Questo risultato mette la parola fine all’idea di sostituire con  la “strategia referendaria” la durezza e la fatica di una lunga e determinata battaglia politica. Un vizio, questo, che viene da lontano. Pensiamo alle iniziative dei radicali di Pannella in piena “Prima Repubblica” e poi all’epopea di Mario Segni all’inizio degli anni 90. Insomma la scorciatoia referendaria, nel contesto della società attuale, non porta in ampie praterie, ma in una strada senza uscita. E su questo punto possiamo sperare che sia definitivamente tramontata l’epoca del soggettivismo estremo dei gruppi dirigenti, non solo dei partiti, ma anche dei sindacati e del diffuso mondo associativo così come quello, assai in voga, dei cosiddetti e sedicenti maitres à penser. Occorrerà d’ora in poi rifuggire dal vizio congenito dell’improvvisazione e del pressappochismo per dare spazio ad una visione strategica fondata su di una “sapienza” dei tempi e dei luoghi che viviamo. Per questo ritorna in campo la via maestra del radicamento sociale, della battaglia culturale e della azione politica. Al tempo stesso diventa ineludibile per tutti il tema della centralità della politica come precipitato della crisi sociale e della necessità di preparare e partecipare in maniera convinta al decisivo scontro elettorale. Su tutto questo toccherà tornarci in maniera approfondita in una riflessione collettiva non più rinviabile.

Però, detto ciò, dobbiamo sottolineare alcune questioni che possono farci ripartire da un terreno più avanzato. Traendo proprio dalle vicende di questi ultimi mesi la convinzione che non si ricomincia da zero, anzi, parafrasando Massimo Troisi, che si “ricomincia da tre”.

E quindi: uno. Partiamo dal dato, nudo e crudo, della partecipazione. Anche qui rifuggendo ogni innaturale semplificazione e sottolineando la differenza tra elezioni politiche e consultazione referendaria. Anche se occorre premettere che mai, come in questo caso, vi è stata una azione complessiva da parte del sistema di potere con il chiaro obiettivo di ostacolare in ogni modo la partecipazione al voto. Ben oltre la pura indicazione politica, abbiamo assistito ad una sistematica azione di censura e boicottaggio ai limiti della legalità. Una vera e propria attività di disinformazione il cui risultato era la non conoscenza della scadenza referendaria da parte di consistenti settori della società.
Nonostante ciò su circa 51.301.377 elettori abbiamo avuto per i 5 referendum intorno ai 15.200.000 votanti quindi circa il 30,5%. Per avere una idea l’ultima tornata referendaria, quella sulla giustizia promossa dalla Lega nel 2022, vide la partecipazione di circa 10.425.000 votanti su 51 milioni di elettori, pari al 20,5%. Alle politiche dello stesso anno la partecipazione al voto toccò il 64% con circa 31 milioni di votanti. La destra vinse con circa il 44% e poco più di 12.500.000 voti.  Alle Europee dell’anno scorso invece con il crollo della partecipazione al 48,3% e 24.740.000 votanti, la destra al governo prese circa 11.080.000 voti, mentre PD+5stelle+AVS circa 9.571.000. Si comprende meglio, quindi, come quei 15 milioni di cittadini che, nonostante tutto, hanno voluto partecipare sono il dato di riferimento cui partire per una possibile vittoria elettorale.

Due. In questi mesi vi è stata una straordinaria mobilitazione popolare, soprattutto giovanile. Se pensiamo alle ultime 2 manifestazioni nazionali, quella contro il decreto “sicurezza” e quella contro il genocidio a Gaza, non possiamo ignorare come quel vasto mondo di reti sociali, esperienze collettive, movimenti sia stato fondamentale per l’iniziativa di massa contro il governo e le sue politiche. Se poi facciamo riferimento a tutto ciò che è successo nelle città a partire dalla giornata del 25 aprile, compresa la campagna unitaria per i referendum, vediamo che a poco a poco la convergenza delle lotte definisce la moderna identità di un nuovo popolo progressista che, al di là delle differenze, reclama unità politica e chiarezza programmatica.

Tre. Proprio questa unità e questa chiarezza si stanno a poco a poco definendo. Infatti attorno all’asse PD, AVS, 5Stelle in Parlamento l’opposizione parla sempre più la stessa lingua e la stessa aggregazione di formazioni che si definiscono “riformiste” procede sempre più verso l’approdo ad una alleanza che credibilmente vuole contendere il governo ad una destra sempre più pericolosamente reazionaria che segue pedissequamente la strategia autoritaria ispirata dal Trumpismo. Del resto nelle recenti elezioni territoriali proprio grazie all’unità di queste forze, alla capacità di sintonizzarsi con le realtà locali ed individuare ottime candidature, che si è riusciti a strappare alla destra prima la Sardegna, poi l’Umbria e infine Genova. I prossimi mesi, con le elezioni in almeno 5 Regioni, dovranno essere l’occasione per rilanciare ed approfondire il radicamento di un campo progressista in grado di ribaltare gli attuali rapporti di forza e di determinare una reale alternativa nel governo del paese.

Un ultima annotazione necessaria da parte di un lavoratore iscritto alla CGIL. É chiaro che occorre una riforma del sindacato a partire dalla sua organizzazione e dalla stessa pratica della confederalità. Il referendum ci restituisce l’immagine sfocata di un corpo ancora vivo, ma profondamente in crisi. In particolare chi vive all’interno delle aziende vede da tempo, salvo lodevoli eccezioni,  il ridursi del ruolo delle RSU/RSA a mera funzione interna, totalmente sconnessa dal vivo del conflitto sociale. Ma anche la rarefazione della presenza territoriale (in termini di sedi, di attività  e di interlocuzione con la realtà esterna) segna un vuoto che rischia di essere riempito dai flussi di narrazione tossica imperanti in questa fase con il portato di isolamento e passivizzazione delle masse. Riaprire la discussione su come rilanciare e riorganizzare il sindacato, su come aprirlo alle nuove generazioni e ai nuovi profili scaturiti dalla rivoluzione tecnologica, su come infine partecipare in autonomia alla definizione di una politica che rimetta al centro le ragioni del lavoro e della solidarietà. Anche questo sarà uno dei temi che dovranno vivere nel corso dei prossimi mesi.

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