
di Giovanni Paonessa
“Nel 1968, frequentavo la terza media e ricordo, come se fosse oggi, la decisione di disegnare a tempera la rielaborazione di una foto, vista su la Domenica del Corriere e che (ma allora non lo sapevo) sarebbe diventata una delle foto-simbolo della guerra nel Vietnam. Disegnai una bambina in lacrime che scappa dal villaggio in fiamme e gli aerei da cui cadevano le bombe. Il professore di disegno, che avrebbe dovuto acquisire il mio lavoro per l’esame finale, mi consigliò di rendere meno evidenti (diciamo pure di cancellare) i riferimenti agli Stati Uniti dalle ali degli aerei, ma mi permise di presentarlo. La “censura” non doveva essergli apparsa eccessiva.
D’altra parte, quando nel 1966 Gianni Morandi, contro il parere dei suoi discografici, incise C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, fu invitato in tutti i modi a sostituire, quanto meno, le parole Vietnam e Vietcong. E nel 1967, durante la trasmissione radiofonica Hit-Parade condotta da Lelio Luttazzi, il disco, che nel frattempo aveva scalato le classifiche di vendita, veniva sì presentato, ma facendo ascoltare Se perdo anche te, incisa sul lato B del 45 giri. […]
Qualche mese dopo, a un comizio del Pci – cosa rara per Mercato San Severino e, quindi, oggetto di curiosità per tutti gli abitanti – alcuni giovani, venuti da Salerno, sventolarono le bandiere del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam. Mi avvicinai e sentii che quelle bandiere sarebbero diventate anche le mie”.
In Una Rosa nel cuore [pagg. 9 e 10] ho raccontato così il mio “incontro” con la lotta di liberazione del Vietnam. Una nazione a me sconosciuta, divisa in due come, più a Nord, la Corea. Ne avevo appreso l’esistenza studiando geografia a scuola e, poi, all’improvviso, quel piccolo Paese lontano, aveva – lentamente ma progressivamente – conquistato la nostra attenzione, era diventato il simbolo di ogni lotta di liberazione. E quante altre battaglie, quante lotte sindacali, per i diritti civili e sociali, sarebbero diventate il “nostro Vietnam”.
La lotta di liberazione del Vietnam era perfetta per contribuire alla nostra “educazione sentimentale”, per formare la nostra coscienza politica. Dentro c’era tutto: gli aerei americani che sganciavano le bombe al napalm, bruciando villaggi e massacrando decine di migliaia di bambini, donne, anziani inermi (anche all’epoca alla ricerca di pericolosi guerriglieri/terroristi); la lotta di Davide contro Golia, ben immortalata dalla foto della guerrigliera con un fucile più grande di lei che fa prigioniero un marines dalla mole enorme; i Vietcong che scavavano tunnel sotterranei, che si nascondevano nelle risaie, che arrivavano alle spalle dell’esercito più potente del mondo. E noi che portavamo le bandiere rosse e blu, con la stella al centro, a tutte le nostre manifestazioni. E sventolavano dappertutto. Erano uno dei pochi tratti unificanti di una sinistra frammentata, divisa perfino nei suoi riferimenti internazionali, sebbene qualcuno nei cortei gridasse «Russia, Cina, unite in Indocina».
E quella bandiera sventolava in tutto il mondo. Perfino nelle strade del Paese degli invasori e di tutti i suoi alleati. Vacillavano governi, prendevano posizione pubblica poeti e intellettuali, si occupavano scuole e università e… per la nostra generazione era più ricorrente scambiarsi un bacio sotto una bandiera vietcong che sotto un albero. E che dire dell’impresa di tre giovani svizzeri (anche gli svizzeri hanno un cuore) che la notte tra il 18 e il 19 gennaio del 1969 ne issarono una enorme su una guglia di Notre-Dame a Parigi?
Ecco. Da un po’ di tempo mi vado convicendo che, per le nuove generazioni, la bandiera palestinese possa significare quello che per noi è stata la bandiera del FLN.
Le incontro alle manifestazioni, le vedo sempre più spesso comparire durante le sedute di laurea oppure a un concerto, perfino durante le partite di calcio o mentre passa il Giro d’Italia.
Questa testimonianza, questa profonda vicinanza con la sofferenza di una popolazione, con le aspirazioni di un popolo tutto, può bastare? Non lo so. In tanti proveranno a ridurne la portata. A dimostrare che il massacro di civili e bambini è un’inevitabile conseguenza di una guerra; che da una parte ci sono i rappresentanti della democrazia, dall’altra no. Bisognerebbe essere più prudenti, misurare meglio le parole, auspicare la pace, ma stare attenti su come esercitarla?
Non me lo chiedevo quando, con giovanile ingenuità e una qualche semplificazione gridavo «Vietnam libero!», non lo so e non me lo chiedo adesso che, con la voce e la storia di una persona che si avvicina alla fine dei suoi giorni, grido «Palestina libera!». So che, in mezzo, c’è stata un’intera vita, con l’illusione di essermi sempre schierato dalla parte dei più deboli e degli oppressi. E so, mi auguro, che un’altra generazione di ragazze e ragazzi sia pronta a raccogliere una bandiera e farla propria. Perché dietro quella bandiera, dietro la lotta di liberazione del popolo palestinese si ripropone, ironia della sorte, la lotta di Davide contro Golia e noi, d’istinto, stiamo dalla parte del più debole e indifeso dei due.
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