Il cambiamento che serve dentro e dopo la pandemia

 

di Raffaele Cimmino

Quello che sta accadendo in questi giorni conferma che bisognava fare di tutto per prepararsi allo scenario peggiore: la robusta ripresa della pandemia che praticamente qualunque epidemiologo dava per scontata. Era chiaro già in estate che prendere nuove drastiche misure restrittive avrebbero avuto un impatto sociale ed economico intollerabile. Nello scenario peggiore ci stiamo precipitando anche  per l’evidente impreparazione con cui siamo arrivati nel fronteggiare la ripresa dei contagi. Non a caso l’ultimo Dpcm, come diverse  ordinanze regionali che l’hanno preceduto, prefigura uno scenario di tendenziale lockdown. E se il ministro della salute consiglia di stare in casa e di uscire lo stretto necessario siamo evidentemente a un punto perfino più critico di quello che dicono i numeri pure assai preoccupanti. Sarebbe da chiedere che senso ha chiudere cinema e teatri se per andare al lavoro moltissimi sono costretti ancora oggi ad accalcarsi sui mezzi pubblici perché non si è provveduto a potenziare i trasporti. Ma è solo una delle contraddizioni di questa difficile stagione.

E’scontato che le categorie colpite dalle ultime restrizioni protestino e chiedano risposte adeguate. Parliamo di esercenti di attività legate perlopiù al tempo libero e al turismo. Il presidente del consiglio ha assicurato ristori che  arriveranno direttamente sul conto corrente di questi operatori già da novembre. Questo va bene. Ma tutti sanno che la manodopera di bar, ristoranti, alberghi, centri sportivi e così via è costituita da personale quando va bene precario e sottopagato molto spesso in nero. Il punto è come dovrebbero sopravvivere  quei lavoratori senza garanzie che perderanno il lavoro in queste settimane, anzi già in questi giorni, senza la prospettiva di trovarne un altro forse per mesi. Le stesse previsioni sulla tenuta economica e l’occupazione non lasciano presagire nulla di buono in vista del dispiegarsi della pandemia. Se è così, basterà il ristoro per uno o due mesi? E si può immaginare di sbloccare i licenziamenti?

Non siamo in presenza di un problema umanitario da affrontare con bonus una tantum, questa è una emergenza sociale pronta ad esplodere con effetti  i cui prodromi si sono visti nelle strade di Napoli e di altre città. Sono le prime avvisaglie di smottamenti in cui possono inserirsi strumentalmente frange politiche oggi marginali ma che servono ad avvisare che ampie fasce sociali rischiano non solo di cadere nella marginalità, perché già ci sono, ma nella più immediata ed elementare pulsione alla sopravvivenza come che sia. Quando questo succede il patto sociale, sia pure il più imperfetto e squilibrato, va in frantumi. Le conseguenze che ne possono derivare sono imprevedibili, perché a quel punto si consuma una drammatica crisi di legittimità delle istituzioni democratiche.

Ce n’è abbastanza per concludere che le misure tampone bastano forse per l’oggi ma non sono sufficienti per il domani. Non bastano più nemmeno le ricette che valevano prima della pandemia. Lo dimostra il fatto che grandi istituzioni internazionali, quelle che tra l’altro sono state le principali agenzie del neoliberismo come il Fondo monetario o la Federal reserve statunitense, stanno revocando i loro capisaldi ideologici. In Europa siamo fermi in mezzo al guado. Se si è provveduto con l’azione della Bce e con il Recovery Fund a studiare contromosse alla crisi pandemica, restano però in vigore, solo temporaneamente congelati, i principi cardine della governance europea: prevalenza della politica monetaria su quella fiscale,  svalutazione del lavoro e del welfare pubblico, politiche dell’offerta. Similmente in Italia si agisce solo sul lato degli sgravi fiscali alle imprese nella convinzione che basti a rilanciare gli investimenti. Non ha funzionato prima e non funzionerà adesso. Tutto dice invece che bisogna capovolgere il quadro. Tornare al sostegno alla domanda aggregata, riavviare investimenti pubblici non solo per dotare il paese di una larga e moderna infrastruttura materiale ma per  recuperare i ritardi nella ricerca e nella formazione. Riprendere in mano l’agenda del divario meridionale non dal lato sbagliato dell’autonomia differenziata ma da quello virtuoso di investimenti nella  cornice di una programmazione economica e di una politica industriale aggiornata e ambientalmente sostenibile. Tutto da accompagnare con una misura universale di sostegno al reddito reso possibile da un congruo e calibrato contributo dei grandi patrimoni e delle ricchezze poche e male tassate come quelle delle grandi imprese del web. Potrebbe essere questa la dorsale di una strategia per il futuro che volesse  trovare nel Recovery Fund il suo strumento più immediato. Se si pensa che il dibattito pubblico è appeso anche  al miserabile canovaccio ideologico del presidente di Confindustria diventa difficile individuare una strategia. Ma intanto  si potrebbe riempire di questi temi l’agenda di una sinistra che ambisse a influire sul cambiamento anziché ad assistervi impotente. Del resto i grandi eventi storici come questa pandemia arrivano anche per cambiare l’ordine preesistente e la gerarchia delle priorità. Sono traversie ma possiamo farle diventare opportunità mentre lottiamo per non farcene travolgere.

 

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