RECOVERY PLAN: si parte con il piede sbagliato

Pubblichiamo un articolo apparso sulle pagine de Il Mattino di Avellino il 30 aprile 2021  a firma dei compagni

Raffaele Aurisicchio e Giuseppe Moricola

La Camera dei Deputati ha approvato il Piano Recovery nella stesura proposta da Draghi. 442 voti favorevoli, 19 contrari, 51 astenuti (FdI). Fratoianni, di Sinistra Italiana,  ha votato contro (unico di LEU).

Il Piano era stato motivo di scontro all’interno della maggioranza che sosteneva il governo Conte perché non ci sarebbe stata una elaborazione condivisa e sarebbe mancato il libero confronto. Critiche assolutamente strumentali utili solo ad accelerare la fine del governo giallo rosso. Con Draghi è avvenuto che, di fatto, il piano sia stato segretato ma nessuno, meno che mai i media e la stampa, ha avuto nulla di ridire al riguardo. Il piano (oltre 300 pagine) è stato consegnato ai deputati alle 13,53, pochi minuti prima che si avviasse il dibattito in aula, senza alcuna possibilità di verificarne i contenuti e appena 3 giorni prima della scadenza dei termini per la presentazione a Bruxelles (29 aprile).

Di fatti è accaduto che il Parlamento è stato ridotto ad un ruolo di mera ratifica.

Per nulla sconvolgenti le novità rispetto al progetto Conte: stessa griglia di 4 riforme di contesto richieste da Bruxelles (Pubblica Amministrazione , Semplificazione della legislazione, Promozione della concorrenza,                                        Giustizia) e di 6 missioni così articolate:

–          Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura        40,73    miliardi

–          Rivoluzione verde e transizione ecologica                            59,33          “

–          Infrastrutture per una mobilità sostenibile                          25,13          “

–          Istruzione e ricerca                                                                   30,88           “

–          Inclusione e coesione                                                               19,81           “

–          Salute                                                                                          15,63           “

Cambiano le poste economiche per ciascuna missione, quasi tutte in diminuzione , a cui si aggiungono i 30 miliardi del fondo complementare  ( che potrà scavallare il 2026, data ultima per spendere i fondi  messi a disposizione dalla UE) e i 13 miliardi del fondo React UE. Totale: 248 miliardi.

Rispetto al Conte bis qualche novità, però, c’è. Si toglie il salario minimo (una misura di 13 miliardi necessaria per i lavoratori più poveri) e si inserisce il federalismo fiscale secondo i voleri della Lega che proprio non rinuncia alla prospettiva delle “repubblichette”.  E si aggiunge il riferimento alla necessità di una riforma fiscale, da concretizzarsi entro luglio con una specifica legge delega, senza che ne sia stato evidenziato l’impianto: progressività come indica la Costituzione o flat tax come chiede Salvini?

Il Pnrr presentato da Draghi e approvato dal Parlamento  è un piano che espunge ab origine le riforme sociali necessarie a migliorare la qualità della vita dei soggetti più deboli colpiti dalla crisi economica e dalla pandemia e a cambiare davvero i rapporti economici e sociali del paese. Si pone, più modestamente,  lo scopo  di ammodernare il  sistema senza modificarne le regole di funzionamento. La continuità formale con quanto elaborato dal governo precedente, non a caso,  si depura degli scopi più spiccatamente sociali alla base del precedente progetto  Conte.

La filosofia che sta alla base è quella che punta ad inseguire i miti della crescita senza sviluppo, della competitività e della concorrenza in uno schema che comprime i tempi delle decisioni e fa a meno della democrazia. La crisi economica connessa alla pandemia e gli sconvolgimenti indotti dai mutamenti climatici vengono, di fatto, affrontati con le politiche e le ricette in voga negli anni novanta, cioè prima della crisi del 2008 e prima del covid. Ma questi risultati non appaiono scontati perché non è assolutamente detto che gli investimenti e le politiche di stimolo all’economia si tramutino di per se in punti di PIL aggiuntivi (viene ipotizzata una crescita di 3,6 punti entro il 2026). Ma la dittatura del PIL implicito  in quel modello di crescita, purtroppo,  non fa intravedere  né positive ricadute sulla dignità del lavoro né decisivi e non più rinviabili miglioramenti della qualità della vita dei cittadini.

Insomma,  non è il caso di coltivare facili entusiasmi e meno che mai di replicare, soprattutto nel mezzogiorno, la solita tiritera sulla ennesima occasione da cogliere. Se tutto va bene, spendendo bene senza ritardi e senza malversazioni, i circa 200 miliardi fra 4 anni riusciremo a recuperare i livelli occupazionali del giugno 2019, che comunque ci relegavano nella posizione di fanalino di coda delle graduatorie europee , in particolare riguardo i livelli di occupazione femminile e giovanile.

Il piano riflette l’idea che bisogna ripristinare il mondo che c’era prima, edulcorato dall’immancabile richiamo alla ecologia.  Non emerge con nettezza, si potrebbe dire con il dovuto pathos,  il senso  di un nuovo corso giustificato  dalla straordinarietà   del momento storico e  dalla opportuna valutazione degli incagli e delle distorsioni in cui è precipitato il capitalismo. Allo stesso modo manca l’appello alla mobilitazione delle migliori energie di cui dispone la società italiana. Il piano, in buona sostanza,  non contiene  alcuna prospettiva di realizzare un differente modello di sviluppo, sicuramente più competitivo, ma ancor più inclusivo. Eppure la pandemia avrebbe dovuto insegnare qualcosa.

In termini di funzionamento il  piano prevede che le 6 missioni verticali debbano incrociare la dimensione orizzontale dei territori in una logica di inclusione e di superamento dei dualismi storici. Messa così, il fulcro di tutto dovrebbe essere il Mezzogiorno. Non è soltanto l’aggravarsi della distanza tra Sud e Centro Nord del paese a richiedere di puntare sul Mezzogiorno ; è soprattutto la constatazione che nella storia del paese quando c’è stato sviluppo concreto e crescita economica e sociale questo è avvenuto grazie al contributo del Sud. Svimez calcola che per ogni euro di investimento al Sud si genera 1,3 euro di valore aggiunto a favore del sistema paese e di questo il 25% ritorna al Centro Nord. Nel piano è previsto che al Mezzogiorno sia destinato il 40% delle risorse (una novantina di miliardi). Come detto, avrebbero dovuto essere più del 40% ma resta il punto di quale uso si farà di queste risorse. Il Mezzogiorno presenta la necessità di un rilancio e di una riconversione produttiva e insieme a questo la necessità di una grande cura delle sue risorse principali, l’ambiente e il territorio. Non ce la si fa se si pensa che basti puntare solo sulla logistica, il collegamento di alcuni porti, la Salerno Reggio Calabria e l’Alta Velocità. La transizione ecologica, la ristrutturazione verde dell’economia se non la si fa al Sud dove si può fare? Con  Ilva di Taranto, area di Bagnoli, Terra dei fuochi, coste e zone interne e interi territori da mettere in sicurezza. Facciamo nel Mezzogiorno l’idrogeno verde da fonti rinnovabili o facciamo l’idrogeno blu da origini fossili come propone l’Eni e Confindustria? Al Sud ce n‘è quanto basta per realizzare una effettiva riconversione ecologica dell’economia ma non è questione di infrastrutture materiali , è questione di scelte, di quantità  e qualità degli investimenti e di una differente politica dell’Italia e dell’Europa per il Mediterraneo. Più di tutto è questione di infrastrutture sociali, quelle che riguardano la società e la vita delle persone, dalla sanità alla scuola, dal lavoro ai diritti, dalla dignità per ciascuno alla necessità morale e civile di costruire un argine invalicabile per qualsivoglia sopraffazione e per sconfiggere le mafie che nel Mezzogiorno hanno la loro base operativa. Siamo d’accordo con Gianfranco Viesti quando afferma che le gerarchie territoriali non sono un destino irreversibile. Possono cambiare grazie ad intelligenti politiche pubbliche che smettano di assecondare  e non contrastare il declino e l’aumento delle disparità. Contiene il piano appena approvato una inequivocabile inversione di tendenza su questo terreno? Francamente non  se ne ravvedono i segni.

 

 

E, infine, la governance, su cui pure tanto si sono appuntate le critiche a Conte.  Chi comanda e chi decide? Decide il MEF e la scelta del leghista Giorgetti a capo di quel ministero  ha dato da subito il segno di come sarebbero andate le cose.  Decide il MEF con l’ausilio dei ministeri a guida tecnica. E le Regioni e gli Enti locali? A loro, nel gioco di intersezione tra missioni verticali e necessità territoriali, sono destinati una novantina di miliardi, ma potranno inserirsi più avanti, nella cosiddetta seconda fase quando dovranno presentare i progetti e dovranno stare al passo coi tempi fissati: chi non ce la fa sarà scavalcato e a decidere sarà ancora una volta il MEF. Le Regioni dovrebbero stabilire gli indirizzi, indicare le priorità e le compatibilità. Stando alla nostra Regione, la Campania, di tutto questo finora non vi è stata traccia. Ad oggi prevale il fai da te, senza alcuna griglia di selezione e senza coordinamento e, soprattutto,  senza che la mano destra sappia cosa fa la sinistra. Per questa via il rischio è che davvero possiamo trovarci che per l’Irpinia  risulti candidato il tunnel sotto il Partenio. Altro che occasione da non perdere!

 

Raffaele Aurisicchio

Giuseppe Moricola

(Sinistra Italiana- Avellino)

Be the first to comment

Leave a Reply

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*