La tutela dell’ambiente in Costituzione

La tutela dell’ambiente in Costituzione, una vittoria contro la “grande bruttezza” e la deriva politico-affaristica che ha colpito il Paese

di Ranieri Popoli

Il 7 febbraio scorso attraverso il voto conclusivo della Camera dei Deputati sono state definitivamente approvate le modifiche degli articoli 9 e 41 della nostra Costituzione introducendo in tal modo “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, tra i princìpî fondamentali dell’ordinamento repubblicano, inducendo “le attività del mondo della produzione alla loro conseguente salvaguardia”. Queste modifiche pongono una serie di importanti conseguenze sotto l’aspetto giuridico, costituzionale e culturale e di certo incideranno profondamente nel necessario processo di riforma e di adeguamento normativo che ai diversi livelli istituzionali occorrerà apportare, nonchè sul più generale dibattito politico che inevitabilmente ne scaturirà.
La questione del patrimonio ambientale italiano, inteso come contesto di tutela e valorizzazione dei nostri territori, sia naturali che antropici, fu assunta in particolare nell’ articoli 9 della Costituzione laddove si precisava che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Letto con gli occhi della contemporaneità potrebbe significare un precetto un po’ riduttivo , motivato più da un dovere morale che da una compiuta presa di coscienza politica. Il contesto dell’immediato secondo dopoguerra, caratterizzato da una situazione di profonda devastazione morale e materiale del Paese, non lasciava la necessaria attenzione al patrimonio sopravvissuto rispetto alle macerie incombenti nelle città e alla diffusa miseria sociale.
Per queste ragioni la tutela del patrimonio, nella sua accezione più significativa dello spirito del tempo, era stata collocata più in una prospettiva, in quanto il sentimento e il bisogno della ricostruzione e del nuovo era comprensibilmente maggiormente avvertito di quello della tutela e della conservazione. Ma nonostante si vivesse in tale clima i padri e le madri costituenti intesero assumere tale prerogativa nei “Principi fondamentali” della Costituzione, cioè nel prologo fondante l’identità del popolo italiano nella nuova storia democratica e repubblicana che andava dispiegandosi. La parola non è stata riportata letteralmente nel testo ma sono stati loro a inserire “tra le righe” il concetto della “grande bellezza” non limitandosi a un mero significato estetico ma a quello che oggi chiamiamo concetto di salvaguardia e di pura sostenibilità.
Nei decenni successivi il destino del patrimonio ambientale e antropico del nostro Paese è andato in tutt’altra direzione, affermando una cultura opposta, che oseremmo definire, con una certa licenza poetica, “ la grande bruttezza” . Dal Nord al Sud l’intero territorio è stato letteralmente asservito agli interessi politico-affaristici delle grandi lobbies della speculazione per cui la perequazione urbana delle nuove città, la programmazione sostenibile delle infrastrutture pubbliche, il recupero certosino dei centri storici, la salvaguardia delle aree interne e rurali, la tutela della straordinaria civiltà contadina, salvo limitate eccezioni, sono state letteralmente surclassate da un’onda nera che simbolicamente è partita dalla Diga del Vajont e si è abbattuta nella Valle dei Templi di Agrigento. Una distruzione di tale portata probabilmente maggiore in termini di danni economici, materiali e morali di quella sostenuta a causa delle devastazioni della seconda guerra mondiale. Per fortuna una certa sensibilità in tal senso è iniziata a maturare negli anni settanta grazie ai primi movimenti ambientalisti cresciuti, sull’onda americana e del Nord Europa, anche nel nostro Paese, e all’innovativa azione di governo locale improntata dalle amministrazioni di sinistra, in particolare del Centro Italia.
Un nuovo corso, non sempre agevole e lineare, che comunque ha iniziato a introdurre una sorta di rivoluzione culturale che ha contaminato, probabilmente anche sotto la spinta psicologica del disastro nucleare di Cernobyl, sia l’ambito legislativo che giurisprudenziale costituzionale , quando si è giunti alle importanti sentenze n. 210 e n 641 del 1987. In esse, per estrapolazione, si affermavano alcuni importanti postulati come quello che definiva l’ambiente come “ un bene giuridico riconosciuto e tutelato da norme” e la sua salvaguardia rappresentava un “diritto fondamentale della persona umana” nonché un “valore costituzionale primario” alla pari come quello della salute individuale e collettiva dei cittadini. Con la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 la “tutela dell’ambiente” ha trovato una precisa collocazione nelle elencazioni delle competenze di Stato e Regioni nell’art. 117 del novellato.
Ma la vera novità è stata la distinzione fra la normativa in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, e quella finalizzata alla “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, attribuita a quella concorrente di Stato e Regioni. La giurisprudenza costituzionale in materia presenta sempre caratteri di particolare problematicità, se non di vera e propria contraddittorietà, che la sentenza n. 407 del 2002 ha in qualche modo definito in maniera più circostanziato circa la non esclusività della competenza statale. Questa definizione se da un lato ha dato ragione dell’attenzione che occorre riservare a quelle regioni virtuose in materia , che possono fungere anche da apripista per un’auspicabile più generale applicazione delle stesse, d’altro canto è anche corretto sottolineare che costoro hanno comunque delineato un contesto nazionale differenziato e disomogeneo che non sempre si è rivelato sinonimo di utilità funzionale in tale materia.
Con il voto della Camera dei Deputati del 7 febbraio scorso sono state apportate le modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione riportando un consenso in sede di votazione di oltre i 2/3 per cui la legge di riforma della Carta fondamentale non dovrà essere sottoposta al vaglio di referendum confermativo. Il testo introduce all’articolo 9 un nuovo comma che sostanzialmente attribuisce in capo alla Repubblica la funzione di tutela non solo per il paesaggio ma anche di ambiente in termini di biodiversità ed ecosistemi esistenti, sia del mondo vegetale che faunistico. Le modifiche dell’articolo 41, che è contemplato nella Parte I , quella dei “Diritti e doveri dei cittadini” e in specie al Titolo III riservato ai “Rapporti economici” , precisano che “ l’iniziativa privata non possa svolgersi in danno alla salute e all’ambiente” e aggiungono che la legge oltre a indirizzare l’attività economica a fini sociali ora deve essere orientata anche a traguardare “quelli ambientali” .
Queste importanti modifiche sono state originate da ben otto iniziative legislative parlamentari e dall’azione propedeutica della Commissione governativa istituita durante il Governo Conte II, alla quale hanno partecipato insigni studiosi e costituzionalisti aprendo, comunque, una serie di questioni che è opportuno tenere fin da subito nella debita considerazione. La specificazione di alcuni elementi non contemplati nell’originario articolo nove non significa solo un rafforzamento dottrinario e giuridico del concetto ma esaltare il significato stesso della Costituzione, la quale non è tanto un’ elencazione di intendimenti di prescrizioni di princìpi ma soprattutto lo specchio nel quale si riflette l’identità collettiva di una nazione . Una “Carta per il Futuro” potremmo dire, che per la prima volta esplicita chiaramente i veri destinatari, cioè le nuove generazioni, per cui, e non sembri una disquisizione prettamente formale, esse sono indicate esplicitamente come soggetti primari di rivendicazione di tale diritto tanto da poter originare dei veri e propri “Tribunali per l’Ambiente” , come lo è per alcune fondamentali materie come il “Diritto del Lavoro” o “Della Navigazione” che annoverano anche una giurisprudenza specialistica della fattispecie.
C’è anche un altro fondamentale aspetto che è stato alquanto trascurato dal dibattito generale, che è quello dell’implicazione strettamente costituzionale, avendo riscontrato per la prima volta un ritocco a uno dei dodici articoli dei “Princìpi fondamentali”, storicamente tenuti a riguardo sin dalla loro genesi. Non a caso una sentenza della Corte costituzionale del 1988 aveva confermato una certa “intoccabilità” di quella parte della Carta fondamentale lasciando un’eventuale ipotesi a sole modifiche o integrazioni che introducessero una estensività migliorativa e non ne restringesse la portata con eventuali interventi”peggiorativi”. Nel caso specifico è vero che le modifiche apportate sono indubbiamente migliorative della portata del principio costituzionale originario ma il fatto che sia avvenuto non significa che in futuro non potrebbe presentarsi una nuova evenienza. Come la Storia ci insegna non sempre l’oggettività significa una conseguente e piena condivisone se non permane nell’ambito politico e parlamentare un rassicurante senso di responsabilità del sentire comune nazionale, perché in questo Paese non ci vuole molto ad avere una dittatura della maggioranza e quello che è oggettivamente restrittivo viene gabellato per migliorativo.
Di riflesso abbiamo un altro ambito toccato da questa riforma costituzionale “verde” e riguarda l’ applicazione alla luce dell’articolo 117 realizzato in occasione dell’altra e discutibile riforma costituzionale del 2001 , voluta in particolare, dalle forze progressiste del Parlamento. Come è ben noto la regionalizzazione differenziata della Nazione è qualcosa che ha prodotto un certo dinamismo amministrativo ma anche un quadro multiforme disparitario del nostro regime legislativo, a partire proprio dalle materie in capo all’ambiente e alla politica del trattamento dei rifiuti. La riforma dell’articolo nove in un certo senso intesta di nuovo allo Stato e non all’ordinamento regionale la questione ambientale e ripropone quanto più volte chiarito dalla stessa Corte costituzionale in merito a una certà unicità della governance in materia. Questo significa che il soppresso Ministero dell’Ambiente declinato inopinatamente in quello della “Transizione ecologica”, che svolge una funzione non propriamente corrispondente alle esigenze di tutela, laddove la dinamica economica e produttivista è preminente, debba essere ripensato nel suo strategico ruolo politico e nella sua fondamentale strutturazione istituzionale.
Ma le implicazioni più sostanziali a seguito di tale riforma sono soprattutto di ordine politico in quanto il concetto di ambiente è concepito nella sua accezione più ampia e soprattutto sistemica, cioè da non valutare in modo settoriale ma interdipendente rispetto al contesto dei territori e delle politiche che si realizzano a tutti i livelli istituzionali nei loro confronti. Insomma non è un tema esclusivo per tecnici professionisti o per soli rappresentanti istituzionali, ma una competenza sociale trasversale che deve vedere il massimo del coinvolgimento degli attori di filiera e territoriali. Il secondo elemento di novità storica sta nell’innovazione culturale in quanto l’ambiente si configura non solo come un elemento di specie o una materia specialistica sotto il profilo giuridico-dottrinario, ma innanzitutto come un valore, un diritto inalienabile dell’Umanità . Come si è potuto notare le modifiche costituzionali rivestono un’importanza notevole che incideranno in modo considerevole sul futuro delle tante battaglie di civiltà ambientale offendo alla stessa giustizia elementi di consolidamento per quanto riguarda il riconoscimento e le applicazioni di taluni princìpi già contemplati in diverse sentenze della Corte Suprema in questi anni.
Questo farà ragione delle tante vertenze in atto, e di quelle che verranno, rispetto a una vulgata interpretativa francamente insopportabile che ha voluto etichettare le diverse soggettività sociali che si sono opposte per metodo e merito a scelte poco rispettose della democrazia territoriale e delle prerogative di una preventiva pianificazione sostenibile, magari sotto la giustificazione di uno stato permanente di emergenza di cui i referenti istituzionali sono spesso i responsabili primari. E sotto questo delicato aspetto la vicenda del biodigestore previsto a Chianche(AV), soprattutto per le modalità monocratiche e irrispettose della democrazia territoriale con cui si è deciso di procedere, alla luce di quanto riconosciuto dalla recente innovazione costituzionale, appare sempre più come un atto avverso a tali princìpi e un problema che supera i recinti localistici per affermarsi come una vera questione nazionale .
Nel concludere questa riflessione non facciamo ricorso ai grandi pensatori della letteratura come Fedor Dostoevskij, Albert Camus, Pier Paolo Pasolini, solo per citarne alcuni che hanno trattato il tema della natura e dell’ambiente in pagine memorabili, ma più semplicemente a un antico detto del popolo Masai. Esso vive ancora oggi in una dimensione “naturale” , sospeso tra gli altipiani del Kenia e della Tanzania, e recita “Noi non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo avuto in prestito dai nostri figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato.” Esattamente quello che solo pochi giorni fa anche noi abbiamo scritto nella nostra Carta fondamentale.

*Coordinatore del comitato “No al Biodigestore, sì al Greco di Tufo” e referente provinciale di Sinistra Italiana

 

Pubblicato su www.Orticalab.it il 20 febbraio del 2022

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